Umberto Galimberti: Così si brucia la gioventù

09 Settembre 2002
Dedicato ai giovani. Non a tutti, naturalmente. E non così tragico come gli altri vizi, perché nel giovane tutto è modificabile. "Vuoto" qui allude al nichilismo giovanile come speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso, inerzia in ordine a un produttivo darsi da fare, sovrabbondanza e opulenza come addormentatori sociali, indifferenza di fronte alla gerarchia dei valori, noia, spleen senza poesia. Incomunicabilità, non come fatto fisiologico tra generazioni, ma come presa di posizione. Un vuoto pieno di rinuncia, assordato solo dalla musica a tutto volume.
Tutti questi fattori scavano un terreno dove prende forma quel genere di solitudine che non è la disperazione che attanaglia quanti un giorno hanno sperato, ma una sorta di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare alcun messaggio, perché non c´è anima viva che lo raccolga, e dove se si dovesse gridare "aiuto" ciò che ritorna sarebbe solo l´eco del proprio grido. Nascono da qui gesti che non diventano stili di vita, azioni che si esauriscono nei gesti, progetti che si dileguano tra i sogni, passioni di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo che si fa e disfa a seconda delle ore del giorno, infedeltà ai modelli che si assumono per darsi un contegno, trasgressioni che si rinnovano per la creazione di un ordine nuovo, tappe inconcluse di un eterno disordine.
Sensualità imprecisa dove il cuore ha ancora legami con l´ideale e col sesso, senza riuscire a decidere con chi dei due entrare in intensa relazione. Sguardo cattivo che non sa dove scatenarsi: se su di sé o sugli altri, vigilie di notti in cui si celebra l´eccesso della vita oltre le misure concesse, gioiosa confusione dei codici fino al limite dove è il codice della vita a confondersi con quello della morte. Malinconie radicali che nessun diario riesce a contenere perché il volume delle sensazioni è troppo al di là delle parole a disposizione.

Da questo scenario, comune a tutto il mondo adolescenziale, il vuoto, quando insidioso guadagna spazio sottraendolo ai progetti costruttivi, assume tendenzialmente tre forme:

1. La freddezza razionale. Ha luogo quando il cuore, un tempo tumultuoso e invocante, si fa piatto, non reattivo, pronto a declinare ora nella depressione ora nella noia, e quando la tempesta emotiva si abbatte sul cuore, ormai arido perché mai irrigato, si comprime tutto con le difese impenetrabili approntate dalla buona educazione, dalle buone maniere, dal buon allenamento nella palestra gelida della razionalità.
Tutto bene dunque? All´apparenza sì, tutto bene. A scuola non si va male, col prossimo ci si sa comportare, ci si sa vestire anche bene, con le maschere che si indossano e si sostituiscono l´allenamento è collaudato. La sessualità, quando c´è, è tecnica corporea perché questi ragazzi sono "emancipati", in discoteca si balla parossisticamente, insieme a tutti gli altri, la propria solitudine. Un po´ di ecstasy dà quella leggera scossa emotiva di cui si è assetati, ma non lo si dice, lo si fa per moda, per essere come gli altri, con cui si fa "branco", anche branco beneducato, nel tentativo di ottenere dal branco quel residuo di conforto affettivo di cui il loro cuore, come un organo autonomo, saltuariamente ha sete.
Sicché alla fine tutto esplode, la compressione della razionalità mai diluita nell´emozione, la difesa delle buone maniere che ormai, persino a propria insaputa, fanno tutt´uno con l´insincerità, la noia, che come un macigno comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in sintonia col mondo, formano quella miscela che sotterra l´io di questi giovani a cui è stato insegnato tutto, ma non come "mettere in contatto" il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore. Queste "connessioni" che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri.

2. L´ottimismo egocentrico. Quando l´indifferenza emotiva si coniuga col fatalismo connesso al concetto di destino ("sono fatto così!"), il vuoto si esprime in quell´"ottimismo egocentrico" di cui parla il sociologo Falco Blask in Q. come caos (Tropea): "Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra". Portando alle estreme conseguenze il principio di non dover mai chiedere il permesso a nessuno, gli ottimisti egocentrici non chiedono più nulla nemmeno a se stessi, e si dedicano totalmente al compito di inventare nuove regole del gioco laddove grava la routine. Inscenano in questo modo tutta la loro vita come un esperimento sociale dall´esito incerto e vanno su di giri al semplice ed esaltante pensiero che ciascuno nella propria vita va in diretta ventiquattro ore su ventiquattro.
Il loro modo di relazionarsi alla vita prevede infatti che si agisca come virtuosi dell´irresponsabilità, senza alcun riguardo per la propria storia personale, senza rispettare impegni e senza temere le eventuali conseguenze del proprio agire, dal momento che tutte le scelte sono disponibili e quelle effettuate tutte revocabili. Dalla perdita di identità, che si costruisce solo con la consequenzialità delle nostre azioni e con l´irrevocabilità delle scelte, nasce quel frazionamento psichico, dove l´identità vive nel gesto misurato non sulla scala del bene e del male, di cui non si distingue più il confine, ma sulla scala della noia e dell´eccitazione. Nell´esperienza ormai assaporata da questi giovani circa la loro non incidenza, neppure minima, di cambiare le regole di una società tecnologicamente ed economicamente, ma non politicamente o moralmente, ordinata, ognuno va alla ricerca della nicchia adeguata dove poter mettere in scena la propria disarticolata avventura.

3. L´inerzia conformista. Tra le forme del vuoto, è la più diffusa. Essa è caratterizzata da quella "rassegnazione contenuta" così ben descritta da una ricerca dell´Eurisko, là dove parla della "tipologia degli abbastanza" con riferimento a quei giovani che vanno abbastanza d´accordo con i loro genitori che concedono loro abbastanza libertà. Hanno abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta. Nessun progetto per il futuro anche perché non ci sono abbastanza opportunità, nessun ideale da realizzare.
Sono giovani che si riconoscono per il loro basso livello di autoconsiderazione, per la loro sensibilità gracile, introversa, indolente, per la loro inerzia provocata da un´eccessiva esposizione agli influssi della televisione e di Internet. Un´unica preoccupazione: procurarsi un´incredibile quantità di tempo libero per assaporare fino in fondo l´assoluta insignificanza del proprio peso epocale.
Di qui le frequenti fughe nel sogno e nel mito, il mimetismo nella ricerca neppur troppo spasmodica di un´identità venata dalla nostalgia relativa all´impossibilità di reperire radici proprie, il tutto condito con un acritico consumismo, reso possibile da un´inedita disponibilità economica che, per disinteresse o per snobismo, questi giovani neppure utilizzano, perché le cose sono a disposizione prima ancora di averle desiderate. E così a questo tipo di giovani viene attribuita una valenza di "mercato" prima ancora che di "identità". Su di essa si buttano le nuove aree di profitto che hanno fatto proprie le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche della loro condizione psichica che la pubblicità, la produzione dell´abbigliamento, le agenzie di viaggio e l´industria del divertimento hanno decodificato molto meglio di quanto non abbiano fatto le statistiche sociologiche, le analisi psicologiche del profondo, la cultura devitalizzata della scuola dove molti insegnanti neppure s´accorgono che quei giovani non avvertono alcuna corrispondenza tra quanto si apprende in classe e quanto s´intravede dalla finestra dell´aula.
In questo modo tra i quindici e i venticinque anni, quando massima è la forza biologica, emotiva e intellettuale, molti giovani vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione e la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l´identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l´autostima deperisce. Ma che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? E´ solo una faccenda di spreco di energie o il primo sintomo della sua dissoluzione? Forse l´Occidente non sparirà per l´inarrestabilità dei processi migratori, contro cui tutti urlano, ma per non aver dato senso e identità, e quindi per aver sprecato le proprie giovani generazioni.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …