Antonio Tabucchi: Chi chiede agli altri di fare gli eroi

15 Novembre 2002
Caro direttore, sul "caso" (mi spiace chiamarlo così, ma non posso fare altrimenti) Sofri, Bompressi e Pietrostefani ho preso posizione praticamente da quando è cominciato. Prima di tutto per ciò che rappresenta da un punto di vista giuridico: un processo indiziario, basato unicamente sulla parola di un "pentito". Pentito che non ha mai potuto esibire nessuna prova, anzi, che si è contraddetto più volte clamorosamente, ma che è stato ugualmente creduto. Lo stesso caso, direi, del processo all´onorevole Andreotti, dove tuttavia i pentiti (credo fossero dieci o undici) non sono stati creduti. A mio avviso giustamente, perché la legge sui collaboratori di giustizia dichiara che tali figure sono degne di credito se confortano le loro confessioni col sostegno di una prova. Niente prove, niente colpevoli, siano il senatore Andreotti, siano Sofri, Bompressi o Pietrostefani. O c´è differenza? Peraltro l´iter processuale di Sofri, Bompressi e Pietrostefani è stato assai tormentato, nei diversi casi del giudizio, e abbiamo avuto vari verdetti che ribaltavano i precedenti, e perfino le cosiddette "sentenze suicide", cioè assolutorie ma che potevano venire inficiate dalla forma in cui erano scritte.
Ma la mia preoccupazione da sempre non riguarda solo il caso giuridico né solo il caso personale dei singoli condannati. Quando scoppiò il "caso" Sofri mi parve di capire che esso, a nostra insaputa, e forse malgrado chi era stretto nelle sue tenaglie, introduceva nella società italiana un allarmante paradosso: era come la metafora di una malattia. O meglio, era "la malattia come metafora" per dirla col titolo di un celebre libro di Susan Sontag, con la quale proprio in questi giorni commentavo la vicenda di Sofri. Appena ieri, a casa sua, parlando dei poeti che amiamo (Pessoa, Emily, Dickinson) parlavamo dell´esperienza, del libro che Susan sta scrivendo sulla guerra "vista", su ciò che si può e si deve dire se lo conosciamo. Il concetto espresso da una frase di Roman Jakobson, il linguista, secondo il quale la parola "formaggio" non ha nessun senso per chi non ha mai assaggiato del formaggio in vita sua.
In seguito alla proposta di grazia dell´onorevole Berlusconi, che non era mai stata avanzata da nessun primo ministro, su "l´Unità" Francesco Pardi e Gianni Vattimo insorgono. Il primo, con un ragionamento assai elementare, sostiene che Berlusconi non aveva il diritto di chiedere la grazia per Sofri. Il secondo si rivolge addirittura alla vittima del caso giudiziario, allo stesso Sofri, invitandolo a rifiutare la grazia (addirittura come se Sofri l´avesse già ricevuta). Non solo, l´eroico Vattimo invita Sofri a farsi qualche altro annetto: "Se hai sopportato per anni il carcere ingiusto, ti chiedo di resistere ancora, perché questa volta, io credo più di prima ne vale la pena. Io certo non lo saprei fare, ma tu ormai, per quello che sei e rappresenti, ne hai quasi un imperativo dovere". Ma che bravo, Vattimo. L´imperativo categorico kantiano è una categoria che richiede rigore e sacrificio, ma se riguarda qualcun altro dev´essere più comoda da praticare. Così come, rispetto alla cella di Sofri, deve essere più comodo l´albergo di Bruxelles, in cui alloggiano gli eurodeputati, e questo mio albergo, accanto alla Madison Avenue di New York, dove sono venuto a passare due giorni dal vicino College dove insegno.
Già Bertold Brecht diceva che un Paese che ha bisogno di eroi è un Paese disgraziato, ma il bisogno di eroismo, di Pardi e di Vattimo è di specie rara oltreché di facile attuazione: consiste nel chiedere agli altri di fare gli eroi, perché loro non sono tagliati per questo. Pretendere di scegliere al posto di un altro è una pretesa assai singolare, ma mettere con le spalle al muro una persona senza uscite, soprattutto se si hanno a disposizione tutte le scelte che consente l´essere liberi, mi sembra uno dei sintomi più gravi, una delle metafore più sgradevoli della malattia italiana.
Ma conosco sufficientemente bene il prigioniero Adriano Sofri per poter dire che nonostante la sua condizione è uno degli uomini più liberi che conosco, prigionieri di rigidi schemi binari e di mentalità fossili sono coloro che pretendono di parlare per lui e non saranno certo i loro "consigli" a influenzare le sue scelte. Anche perché in questo caso sono i consigli sul sapore di formaggio da parte di chi non ha mai assaggiato formaggio in vita sua.

Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 - Lisbona, 2012) ha pubblicato Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Il Saggiatore, 1981), Donna di Porto Pim (Sellerio, 1983), Notturno indiano (Sellerio, 1984), I volatili del Beato Angelico (Sellerio, 1987), Sogni …