Michele Serra: Il puro teatro del signor G

09 Gennaio 2003
Gaber, bisognava vederlo. Per quanto la voce fosse così intonata, la pronuncia così chiara, le canzoni così dense, non era uno chansonnier. Era un attore che cantava, era puro teatro. Era la canzone che si incarnava. Il suo corpo sottile, vulnerato fino dall´adolescenza, nevratile, flessuoso, nella solitudine del palcoscenico sprigionava un´energia quasi medianica, un pathos quasi imbarazzante. Ci si chiedeva se farsene attraversare, da quell´energia e da quel pathos, dovesse costargli tutto, a Gaber, o potesse ridargli tutto. Si capiva, in ogni modo, che l´azzardo era assoluto, la dedizione totale.
Lo abbiamo ammirato e amato, in tanti, soprattutto per la forza smisurata con la quale ha inscenato se stesso, senza risparmio, sfinendosi sul palco, battendosi fino all´ultimo fiato.
Gaber bisognava vederlo quando giocava a calcio-tennis, nella sua casa toscana, con la gamba lesa in inspiegabile armonia con i movimenti più avventurosi, e giocosi. Come Garrincha, del quale si dice che fu la speciale zoppia a condurlo in gloria, esprimeva un agonismo contagioso, un dinamismo stupefacente. Aveva talento, Gaber. Aveva vita, dentro, e sapeva come esprimerla.
Poi noi del pubblico, come normalmente capita, spendemmo le nostre energie intellettuali soprattutto per discutere quello che cantava, quello che diceva, quello che sortiva dalle sue estati passate a chiacchierare e a scrivere con il sodale di sempre, il pittore viareggino Sandro Luporini. Ma è come lo cantava, è come lo diceva, quello che ci imprigionava a Gaber anche quando avremmo preferito passare ad altri spettacoli, anche quando la sua furia e il suo sarcasmo colpivano, molto scomodamente, pure quello che ci faceva comodo. Anche quando ci sembrava corrivo, o esageratamente acido, l´unicità del suo "come" ce lo restituiva così artista, così talentuoso, da applaudirlo sempre allo stesso modo.
La televisione, che insieme al rock´n´roll fu la sua prima patria artistica, non poteva contenere né reggere una così potente smania di esprimersi. Decise così di sparire dal video e di ricomparire solo sui palcoscenici. Inventò un genere - lui lo definiva "canzone a teatro" - fatto a sua misura, a misura del suo corpo di artista. Imparò a mettersi da solo le luci (nel campo, diventò un maestro), a disegnare la scena per isolare e esaltare la sua silhouette solitaria, a orchestrare le canzoni in modo che la musica sostenesse la sua voce senza mai incombere. Ne sortì un carisma scenico stupefacente: forse solo Carmelo Bene, in Italia, per ben altre vie e con altri linguaggi, sapeva catalizzare il flusso emotivo del pubblico con altrettanta sicurezza. Pur di tutelare il "qui e ora" del teatro, di difenderlo da ogni interferenza, evitava le interviste, e i passaggi televisivi si contano, negli ultimi venticinque anni, sulle dita di una mano: l´ultimo, quasi due anni fa, da Celentano.
Gaber era un uomo intelligente e timido. Non semplice. Non sempre afferrabile. Ha traversato la parte finale di un difficile secolo sempre in stato vigile, quasi febbrile, meditando, leggendo, parlando con altre persone, misurando con la propria sensibilità gli umori collettivi (lui, così solitario) come per compensare il suo carattere appartato. L´ultima volta che l´ho visto ha aperto la porta di casa, pallido e vestito di scuro come sempre, con un sorriso sofferente. Per un attimo ho avuto la percezione che il sipario non si sarebbe più aperto. Camminava a stento. Poi si girò, salì le scale, sistemò il corpo invincibile su una poltrona di cuoio, cominciò a parlare muovendo le mani, muovendo la faccia. Mi sembrò agile come sempre, vivo più che mai. Da leso, da vecchio, da stanco, più agile e più vivo che mai. Più Gaber che mai.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …