Paolo Rumiz: Trieste come San Pietroburgo così si vive prigionieri del pack

10 Gennaio 2003
L´uomo intabarrato arranca sulla strada in salita, scivola all´indietro sul ghiaccio vivo, tenta di aggrapparsi alle auto parcheggiate. Ma scivolano anche quelle, sono incrostate di gelo, non c´è niente da fare: un vento artico lo spinge, lo fa cadere all´indietro. Chiama aiuto, ma non c´è anima viva, intorno solo il deserto di una città blindata nel coprifuoco bianco. Il corpo accelera come su una pista un bob, ormai fila in un silenzio surreale su uno slittino che non c´è, percorre ad alta velocità cinquanta, cento, duecento, trecento metri che non finiscono mai, poi lo stradone per Lubiana lo inghiotte. Arriva una Croce Rossa, lenta, con le catene alle ruote, ma il corpo non c´è più. Lo trovano dopo buoni cinque minuti, incastrato sotto un´auto in sosta, semicongelato ma intero.
Trieste, viaggio in una città bloccata. Trieste come San Pietroburgo, con le barche coperte di neve sul Canale davanti alla chiesa ortodossa, i moli e la Piazza Grande incrostati di una corazza di pack come il fiume Neva. Trieste allo sbando, colta di sorpresa da una bufera largamente annunciata, senza mezzi per affrontare l´emergenza. Si è intervenuti troppo tardi, dopo la formazione del gelo: ora non bastano nemmeno gli spartineve, serve il piccone. E la città, che per tre quarti è in salita, è bloccata fino in centro. Scenario surreale, strade vuote, gente che non esce da tre giorni, anziani da rifornire con pane e latte, negozi mezzi chiusi, scolari e studenti a casa fino a domenica, porto fermo fino al giorno 12.
Sul terminal container ci hanno provato a grattare la banchisa ma non c´è niente da fare. Un lavoro da bestie, poi la neve si incrosta di nuovo sul piazzale e le gru e ti tocca ricominciare. Ma il peggio è sul Carso, dove l´autostrada è percorribile solo alle quattro ruote motrici e tutta la cittadella scientifica è andata in tilt per strade impraticabili. Chiusa l´Area di ricerca, chiusa la Macchina di luce di sincrotrone, chiuso anche l´Istituto internazionale di fisica teorica di Miramare. Difficilissimo l´accesso agli ospedali, anche quelli arroccati in collina. Ma tutta la periferia è isolata: niente bus su quelle salite da matti che tirano su dritte dal mare al Carso. Il Comune non ha mezzi abbastanza per fermare l´avanzata della Siberia sulla città, vive una sua Beresina amministrativa dopo aver atteso con allegro fatalismo l´imprevedibile inverno di Trieste.
I treni, ancora peggio. Quello delle 7.15 ci mette normalmente tre quarti d´ora per Gorizia. Ma stavolta gli scambi sono congelati, a ogni bivio sono dolori. Dai finestrini non si vede niente, tutto è ricoperto da un ghiaccio "sovietico". Si parte, e già dopo un chilometro il macchinista registra "scintillazioni anomale" sotto la pancia della motrice. Fa retromarcia, tenta di tornare alla pensilina, ma altro ghiaccio lo blocca a trecento metri dal capolinea. I passeggeri scendono in mezzo alle rotaie, ripartono col treno successivo, ma a 17 chilometri, al bivio dove si diparte il binario per Zagabria-Belgrado, tutto si inceppa. Bisogna montare sul "Drava", il treno per Venezia in arrivo da Budapest, che piglia la rotaia nel verso giusto dello scambio. Ma anche il "Drava" si ferma. Sosta di un´ora in un paesaggio ucraino, sotto una bora bestiale. Alla fine si va, ma a Monfalcone bisogna cambiare ancora. I naufraghi toccano terra a Gorizia alle 11, dopo quasi quattro ore.
Il viaggio a piedi dal castello di Miramare al centro, lungo la stessa Riviera che d´estate pullula di tanga e chioschi di gelati, traversa scenari alla Dottor Zivago. Un mare che non è il Mediterraneo, ma il Baltico, ha color grigio ferro, tagliato da creste bianche che migrano da Nordest come cariche di cavalleria. Il mare tuona sotto una bora indemoniata, e intanto la terra emana un silenzio impressionante. Un´auto ogni due minuti, lo sferragliare felpato delle catene, poi di nuovo il vuoto. Pedoni zero. Tra i lentischi e i pini, su uno strato di trenta centimetri di neve fresca adagiati sulla battigia, solo due sciatori che vanno, passano accanto alla fontana gelata, spingono sui bastoni con gli occhi semichiusi per la neve che frusta il viso a folate, a mitragliate di aghi invisibili. Le temperatura è meno due, ma con quel vento è come meno dodici.
Sopra Miramare è peggio ancora. Neve e ghiaccio persistente sugli ulivi e i nespoli; il vento fa vibrare i cavi ad alta tensione cavandone un basso continuo cupo, la temperatura si abbassa più si sale verso l´altopiano, poi la bora aumenta, si ingolfa negli avallamenti, non ti lascia stare in piedi, forma dune bianche alte fino a due metri. Per continuare bisogna piegarsi in due, inginocchiarsi quasi. E intanto la temperatura scende a meno sei, che paiono meno venti. Per terra piccioni assiderati. Il resto è un impressionante vuoto animale. Niente caprioli, niente gatti né cani. Nemmeno i gabbiani si vedono più in giro.
In centro i pochi pedoni camminano in mezzo alla strada, tanto non c´è traffico. Un signore scende dal colle di San Giusto con una valigia - deve raggiungere la stazione - e per arrivare a basso non ha scelta, deve spingere il bagaglio giù come una slitta e poi seguirlo per la stessa strade pattinando tra gli applausi scherzosi della gente. Nelle osterie e nei caffè, i superstiti emanano un´allegria contagiosa come bambini che hanno marinato la scuola. Si brontola che con l´Austria-Ungheria era meglio, anche se gli inverni erano inverni. Anche senza spartineve, le strade erano più pulite quando arrivava la bora nera che metteva la città sotto vetro, ribaltava anche i treni e impediva alle navi di attraccare.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …