Ryszard Kapuscinski: Se l´Europa non è più il centro del mondo

15 Gennaio 2003
Dire che il mondo è vario è un luogo comune, ma è questo il punto di partenza, perché la diversità è una caratteristica fondamentale del genere umano, una caratteristica immutata con il passare dei secoli.
Eppure, nonostante questa diversità appaia quotidianamente ai nostri occhi, la mentalità umana continua a opporre resistenza a comprendere e accettare tale eterogeneità. La nostra mentalità rivela una tendenza assolutistica e standardizzante, richiede monotonia e uniformità in ogni cosa e in ogni luogo, la nostra cultura e i nostri valori sono gli unici che contano. Riteniamo che siano i soli perfetti e universali, senza però chiedere agli altri come la pensano.
È proprio qui che sta la grande contraddizione, la contraddizione tra la sostanziale diversità, obiettivamente esistente, e l´ostinato desiderio della mente umana di sostituirla con la visione di un mondo unificato, indiscutibilmente omogeneo. Quanti conflitti, incluso i più sanguinosi, affondano le radici in questa inconciliabile contraddizione!

Com´era la situazione in passato? Senza andare troppo indietro negli anni, negli ultimi cinque secoli, dai giorni dei viaggi di Colombo, c´è sempre stato un certo "equilibrio disequilibrato" che ha caratterizzato la situazione culturale mondiale. Nel corso di questi ultimi cinque secoli il nostro pianeta è stato dominato dalla cultura europea e i suoi modelli, i suoi limiti e simboli sono stati criteri universali applicati a tutti. L´Europa ha governato il mondo non solo politicamente ed economicamente, la sua cultura è stata il punto di riferimento e metro di valutazione per tutte le altre culture.
Bastava essere vicini alla cultura europea, bastava essere europeo, nato o naturalizzato, per sentirsi il padrone, il signore del maniero, il custode del mondo. Per questo l´europeo non aveva bisogno di altre qualifiche, né di acquisire nuove conoscenze o di affinare mente e carattere. Ho ancora osservato questa tendenza negli anni Cinquanta e Sessanta in Africa e in Asia. Un europeo che nel proprio paese d´origine era una persona qualsiasi, tenuta in scarsa considerazione, fors´anche incompetente, quando arrivava in Malesia o in Malawi, diventava improvvisamente un alto commissario, il presidente di una grande azienda, il direttore di un ospedale o di una scuola. I nativi obbedivano docilmente ai suoi ordini, ansiosi di assimilare le sue osservazioni e teorie. Nel Congo Belga, le autorità coloniali crearono una categoria, i cosiddetti évolué, che comprendeva tutti coloro che avevano abbandonato la condizione tribale "selvaggia" ma che non meritavano ancora di essere considerati europeizzati. Gli évolué erano qualcosa a metà, una via di mezzo. Bruxelles caldeggiava la speranza che grazie agli sforzi, agli investimenti, alla pazienza e alla buona volontà sarebbero riusciti un giorno a scalare la vetta dell´"Europeità", ossia le vette dell´umanità. Nel suo splendido libro: Portrait du Colonisé précédé du Portrait du Colonizateur, Albert Memmi descrive il processo doloroso e umiliante a cui sono stati sottoposti gli évolué.
Il ventesimo secolo non è stato solo un secolo di sistemi totalitaristici e guerre. È stato anche il secolo della decolonizzazione, di un grande processo di liberazione. Tre quarti degli abitanti della terra si sono liberati dal giogo coloniale e, almeno ufficialmente, sono diventati cittadini del mondo a pieno titolo. Non si è mai verificato un evento simile nel corso della storia, né mai si ripeterà.
Nel giudicare la decolonizzazione, l´opinione contemporanea si è focalizzata sugli aspetti politici ed economici, su questioni quali: i sistemi di governo nei nuovi stati, gli aiuti internazionali, i debiti o la lotta contro la fame.
Allo stesso tempo, il grande processo di liberazione dei paesi assoggettati ha rappresentato uno straordinario fenomeno di civilizzazione che ha segnato l´inizio di un mondo multiculturale interamente nuovo. Naturalmente, le differenze culturali sono sempre esistite. L´archeologia, l´etnografia, la storia tramandata oralmente o scritta ci hanno fornito per anni infinite prove della loro ricchezza e varietà. Ma in tempi più recenti la dominazione della cultura europea è stata così prepotente che le culture non europee, quali quella araba e la cinese, si sono trovate in uno stato di torpore e ibernazione mentre la cultura bantu e quella andina sono state totalmente marginalizzate ed ignorate.
Il primo attacco a questo monopolio eurocentrico, a questa dilagante e quasi completa dominazione della cultura europea, ha avuto luogo agli inizi dell´era della decolonizzazione, precisamente alla metà del ventesimo secolo. Questo movimento verso l´acquisizione di pari diritti e il riconoscimento della loro importanza, del loro valore e della loro unicità e della loro forza, è stato soffocato e contenuto per più di quattro decenni dalla Guerra Fredda.
Eppure, nonostante i condizionamenti e gli ostacoli, queste culture non-europee, appena rivitalizzate e ancora debolmente radicate, sono riuscite a sopravvivere, a evolversi e prendere coscienza di sé. Come risultato, con la fine della Guerra Fredda, si sono dimostrate indipendenti e dinamiche tanto da poter passare allo stadio successivo, attualmente in corso, che vorrei descrivere come lo stadio di una maggiore coscienza di sé, di un intensificato senso del proprio valore e di una palpabile ambizione a giocare un ruolo importante in un mondo nuovo, democratico, multiculturale.
Quali enormi cambiamenti hanno avuto luogo nel mondo al di fuori dell´Europa!
Un tempo, l´Europa, per mezzo delle sue istituzioni e dei suoi abitanti, era saldamente insediata in questo mondo. Grazie a questo, se si viaggiava fino ai più lontani angoli del mondo, si aveva come l´impressione di non aver mai lasciato l´Europa. L´Europa era ovunque! Se atterravo a Morondova in Madagascar, trovavo un hotel europeo ad attendermi. Sull´aereo da Salisburgo a Fort Lamy, i piloti della compagnia di bandiera erano europei. In edicola a Lagos potevo comprare il Times di Londra o l´Observer. Queste cose oggi non sono più possibili. A Morondova c´è solo un hotel, il Malagasy, i piloti sono africani e a Lagos si può comprare unicamente la stampa nigeriana. I cambiamenti nelle istituzioni culturali sono ancora maggiori. Nelle Università di Kampala, Varanasi (Benares) o Manila i professori europei sono stati sostituiti dagli accademici locali, per la prima volta i libri in arabo hanno decisamente predominato al salone del Libro de Il Cairo.
Il termine "internazionale" ha un significato in Europa e un altro nel Terzo Mondo. Ad esempio, se guardo la pagina internazionale del telegiornale a Gaborone, la capitale del Botswana, mi troverò di fronte a notizie dal Mozambico, Swaziland, Zaire, niente di più. Se lo guardo a La Paz, la capitale della Bolivia, i servizi tratteranno notizie dall´Argentina, dalla Colombia e dal Paraguay. Il mondo è diverso ed è inteso in modo diverso in ogni angolo della terra. Se non accettiamo questa semplice verità è difficile comprendere il comportamento degli altri, i motivi e gli scopi delle loro azioni. Tuttavia, nonostante i progressi nei trasporti e nelle telecomunicazioni e i miti assai diffusi, la nostra reciproca familiarità continua a essere superficiale, per la maggior parte inesistente. Un difensore della rivoluzione mediatica, Marshall McLuhan, credeva che grazie alla televisione il pianeta sarebbe diventato un villaggio globale. Oggi sappiamo che è difficile trovare una metafora più falsa. Perché l´essenza di un villaggio è soprattutto la vicinanza e l´affinità emotiva, una condivisione di calore umano, di intima familiarità, una comunità di esistenze ed esperienze condivise.
No, non viviamo in un villaggio globale, piuttosto in una metropoli globale, un magazzino o un deposito dove la "folla leonina" di David Riesman si accalca, una folla di gente indifferente, nervosa che si sfiora, che non vuole conoscersi o avvicinarsi. La verità è che più si stringono i contatti elettronici tra le persone più si allontanano i contatti umani.
La presenza europea sta scomparendo da molte zone del pianeta. Il noto giornalista italiano Riccardo Orizio lo scorso anno ha pubblicato un libro intitolato Tribù bianche perdute. Viaggio tra i dimenticati in cui parla degli ultimi gruppi di europei da lui incontrati in Sri Lanka, Giamaica, Haiti, Namibia e Guadalupa. In genere si tratta di persone anziane e sole perché i giovani se ne sono andati e dall´Europa non arriva più nessuno. Negli ultimi decenni, l´Europa e la sua cultura hanno attinto da zone che tradizionalmente appartenevano a culture diverse: cinese, indù, islamica e africana. Con la mancanza di interessi politici e soprattutto economici, l´Europa non ha ancora trovato nuove motivazioni per continuare ad essere presente e coesistere con queste civiltà. Il suo posto non è però rimasto vuoto. Molte culture locali, autoctone, fervide e agguerrite la stanno già rimpiazzando.
Durante gli ultimi tre anni, ho trascorso lunghi periodi in Asia, Africa e America Latina. Ho vissuto tra cristiani in America Latina, islamici in Asia, indiani buddisti e animisti di Puno e indù, tra gli abitanti della Guyana e del Sudan. Li avevo incontrati per la prima volta alcune decine d´anni or sono, quando a fatica iniziavano a sollevarsi da secoli di dipendenza. Cos´è che mi ha colpito? Cos´è che ha catturato la mia attenzione?
Questo: il loro atteggiamento ora è caratterizzato dalla dignità, dall´orgoglio per la propria cultura e dal senso di appartenenza a una civiltà propria e distinta. Ormai non soffrono più di alcun complesso di inferiorità, un tempo così ovvio e opprimente. Al contrario, un desiderio di essere rispettati ed essere considerati alla pari. Un tempo l´essere europeo mi garantiva innumerevoli privilegi. Continuo a trovare una calda accoglienza, ma ora non ho più alcun privilegio. Una volta mi facevano domande sull´Europa, ora non più. Ora sono occupati dalle loro incombenze e dalle loro preoccupazioni. Sono ancora un europeo, ma un europeo detronizzato.
Questa rivoluzione in fatto di dignità e di riconoscimento del valore di sé è avvenuta velocemente, ma non improvvisamente, non da un giorno all´altro. Come ha fatto l´Occidente a non rendersene conto? Perché l´Occidente invece di considerare cosa stava accadendo nel mondo che aveva dominato per oltre cinque secoli ha ceduto alle tentazioni del consumismo e al fine di goderselo completamente si è isolato e si è chiuso in se stesso, diventando indifferente a qualsiasi cosa accadesse al di fuori dei suoi confini. È questo il motivo per cui l´Occidente non è riuscito a capire che fuori stava nascendo un mondo nuovo: ieri colpito duramente e sottomesso, oggi sempre più indipendente, orgoglioso, agguerrito nella lotta per la sua libertà. Il processo di isolamento dell´Occidente dai paesi poveri sottosviluppati è stato recentemente descritto dall´ottimo giornalista francese J.C. Rufin nel suo libro L´Empire et les nouveaux barbares. Rupture Nord-Sud. L´Occidente, scrive Rufin, vuole prendere le distanze dai "barbari", vuole chiudersi come Roma all´interno di confini murati a calce o serrarsi in un regime di apartheid, dimenticando che oggi questi "barbari" sono più dell´ottanta per cento dell´umanità! La prima reazione alla rinascita che il Terzo Mondo sta vivendo è una presa di distanza da esso. Ma dove ci porterà questo strada di sospetto e malanimo, in un mondo colmo fino all´orlo di armi alla portata di tutti? Il separarsi e il chiudersi in se stessi non è quindi una strategia vincente. Che soluzione ci rimane? L´incontro? La conoscenza? Il dialogo? Questa non è una raccomandazione, è un dovere che la realtà di un mondo multiculturale deve affrontare. A questo proposito l´Europa si trova davanti a una grande sfida. Deve ritagliarsi un posto in un mondo in cui è sempre stata avvantaggiata dall´esclusività della sua posizione e dove ora invece si trova a dover convivere in una famiglia formata da molte altre culture che avanzano e si consolidano, ad esempio attraverso la progressiva emigrazione verso i paesi europei.
Questo nuovo ambiente culturale planetario può dimostrarsi illuminante, benefico e fertile per l´Europeo, perché non è detto che l´incontro tra culture e civiltà diverse debba portare a uno scontro. Come dimostrano Marcel Mauss, Bronislaw Malinowki e Margareth Mead questo può diventare un terreno di scambio, un contatto gradito, di arricchimento. George Simmel aggiunge che il processo fondamentale nella vita della società umana è l´emergere dei valori nello spirito dello scambio. Lo scambio presuppone un clima confidenziale, di mutuo accordo, di comprensione e compromesso.
Questo offre all´Europa una nuova opportunità. La forza della cultura europea è sempre stata la sua abilità a trasformarsi, riformarsi, adattarsi; qualità oggigiorno essenziali per giocare un ruolo importante in un mondo multiculturale. È solo una questione di volontà, vitalità e determinazione.
Gli intellettuali europei della prima metà del ventesimo secolo, si sono spesso interrogati sulla forma e la sostanza che la civiltà del mondo avrebbe assunto nel futuro. G.K.Chesterton sosteneva che questo era il dovere di ogni essere umano. Il mondo è uno solo e l´uomo non può comportarsi come se stesse scegliendo alloggi da affittare. Nessuno può farlo. Questo mondo, ha scritto, che lo vogliamo o no, è la nostra unica dimora ed è questo il motivo per cui si rendono necessari una "lealtà di base" e un "patriottismo planetario".
In un libro degli anni trenta, intitolato Ludzie terazniejsi a cywilizacja przyszlosci (La gente di oggi e la civiltà del futuro), Florian Znaniecki ha scritto "abbiamo di fronte un´alternativa. O fiorirà una civiltà mondiale che non solo salverà tutto il salvabile delle civiltà nazionali, ma porterà l´umanità a oltrepassare anche i più audaci sogni degli utopisti, oppure le civiltà nazionali si disintegreranno; ossia: anche se il mondo della cultura non andrà distrutto, i suoi sistemi più importanti, i suoi modelli più validi perderanno il loro significato vitale...". È questa la sfida che ci troviamo ad affrontare.

(Traduzione di Cristiana Figone)

Ryszard Kapuściński

Ryszard Kapuściński è nato a Pinsk, in Polonia orientale, oggi Bielorussia, nel 1932, ed è morto a Varsavia nel 2007. Dopo gli studi a Varsavia ha lavorato fino al 1981 …