Umberto Galimberti: Ceneri al vento, adesso si può

20 Maggio 2003
La regione Lombardia sta prevedendo una disposizione che autorizza la consegna delle ceneri dei defunti cremati ai parenti, i quali possono, secondo la volontà espressa dal defunto, spargerle nel mare, in cima al monte, o custodirle in giardino, o in un loculo predisposto nell´appartamento. Penso che l´intenzione sia restituire alla gestione degli affetti privati ciò che resta di una biografia condivisa, invece di abbandonarla in quei luoghi, oggi divenuti anonimi, che sono i cimiteri comuni, ritualmente visitati il 2 novembre.
Ma, al di là delle buone intenzioni che senz´altro sono alla base di questa iniziativa, io vedo, in questo gesto di privatizzazione delle ceneri, un altro cedimento di quella dimensione comunitaria che nella tomba del cimitero trovava il suo luogo di memoria e di pietà collettiva. Così infatti ha sempre pensato l´umanità di sé fin dalle suo origini quando, rifiutandosi di arrendersi all´insignificanza biologica, ha costruito sulla terra quei recinti sepolcrali e poi quei monumenti alla morte che, dalle piramidi d´Egitto alle tombe greche, romane ed etrusche, sono a testimoniare la differenza che l´uomo ha sempre percepito tra sé e l´animale.
Ora questa differenza cede. Lo sguardo immemore con cui conduciamo la vita ha decostruito anche la morte. Non nel senso che l´ha abolita, ma nel senso che l´ha concepita come un nemico da combattere e, combattendola, da procrastinare. Il tentativo, dobbiamo dirlo, ha avuto un certo successo, ma anche un costo. Spogliata dei suoi valori religiosi, metafisici e simbolici non ospitati dallo scenario frenetico con cui conduciamo la nostra esistenza, la morte oggi giunge con un tratto più disadorno, più nudo, più privo di significato, quasi uno scarto di produzione della vita, un residuo inutile, l´assoluto straniero in un mondo affaccendato, non per raggiungere una vera o presunta finalità, com´era nello sguardo religioso o umanistico, ma con nessun altro scopo se non quello di esorcizzare la morte segregandola, separandola, nascondendola nel rifiuto della rimozione o nello scarico dell´oblio. E se la sepoltura è ancora una traccia di memoria, meglio la cremazione e la dispersione delle ceneri, o la loro custodia nel cerchio stretto degli affetti privati.
La mia domanda è: ce la fa il cerchio stretto degli affetti e quindi i singoli individui a gestire la morte? È sempre stata gestita in modo comunitario, con riti a cui si partecipava collettivamente per diluire il dolore con il conforto e accompagnare il defunto in quella terra neutra che non è né mia né tua, ma luogo sacro, di riflessione sul senso della vita, dove ad ogni visita fosse possibile, deponendo un fiore e fissando un ricordo, capire cosa davvero è essenziale nell´esistenza.
Possiamo davvero fare a meno di questa sacralità che indica un aldilà, e quindi una misura per l´"aldiquà", e rinchiudere questi sensi che trascendono la vita, di cui la morte è il sigillo, nel cerchio chiuso e spesso soffocante degli affetti privati? Siamo all´altezza della morte e del suo senso, o siamo arrivati anche qui alla sua privatizzazione, come se l´amore che noi abbiamo nutrito per il defunto fosse capace di contenere quell´evento - la morte - che, a chi muore e a chi sopravvive dice qualcosa di più e di totalmente altro rispetto agli affetti che si sono potuti esprimere nella vita? Perché depotenziare la morte, privarla del suo senso che va ben al di là del mio amore per te e per me? Il mio sentimento, infatti, come quello di ciascuno di noi è troppo piccolo e forse asfittico per contenere quell´evento che è la morte, il cui senso va al di là del semplice congedo, perché porta con sé il sigillo della condizione umana e la memoria del suo limite che nessun individuo, senza la condivisione comunitaria, sa reggere da solo, nonostante tutto il suo amore.
E allora o l´oblio della dispersione delle ceneri, o la presenza incombente di una memoria concretizzata in un loculo nella casa o nel giardino, perché siamo divenuti incapaci di quella memoria più grande che è la consapevolezza che dobbiamo morire, e, all´interno di questa consapevolezza, capaci di vivere discernendo che cosa davvero conta e cosa no in ciò che nel corso della vita ci affanna.
Questi scenari sono troppo grandi e pesanti per le spalle del singolo individuo che da solo non può reggere pesi metafisici con tutto il suo amore e la sua buona volontà. E la morte è un evento metafisico che neppure l´amore più grande di questa terra sa reggere e contenere. Per questo gli uomini, tra i viventi gli unici che sapevano di dover morire, hanno fatto comunità e hanno lasciato nelle necropoli che ancora oggi visitiamo, non i loro resti storici, ma la memoria perenne della condizione umana.
Non aboliamo questa memoria. Anche se lo facciamo per amore. Perché non è vero amore, ma possesso, voler trattenere in qualche modo chi, precedendoci, ci ha ricordato la nostra ineluttabile condizione.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …