Regalar libri

02 Luglio 2003
Per essere sinceri, devo dire che io non sono tra quelli che regalano libri a tutto spiano. Do ancora un certo peso alle parole scritte; vivo tuttora -alla mia bell’età, nella nostra bell’epoca- nella favola scema che racconta di come nell’inchiostro che stampa i caratteri sulla carta allignano e prosperano gli spiritelli del pensiero, i diavoli delle umane bellezze e vergogne. Roba pesante, roba che tagliata male può portare persino alla morte, roba che, assunta sbadatamente, può causare orribili tormenti, persino la pazzia.
I libri non si regalano come fossero giochini, penso io. Se c’è da far contento qualcuno senza troppe storie, ci si scambino pure doni floreali, dolci pugliesi o profilattici ai gusti di frutta, mutande e calzerotti.
Se metto nelle mani di una persona un libro, io so che tra noi non c’è una faccenda da niente, una banalità. Per questo io do libri solo alle persone che amo, e a quelle che voglio amare; naturalmente agognando ad un generoso contraccambio. Li do compiendo il rito di un patto di complicità, di fraternità. Come la pennicilina e l’eroina, piuttosto che regalarli, dovrei dire che io i libri io li prescrivo e li spaccio. Azioni, l’una e l’altra, che vanno compiute con la massima cautela e discrezione. E senso di responsabilità e classe.
Regalo storie, quasi sempre, e voglio che sia roba di prima qualità. Per questa ragione sono tutte storie che hanno dentro assieme droga e medicina, di modo che la mia parte è volta a volta quella di un pusher molto pio o di un farmacista con pochi scrupoli. Ma io credo, onestamente, che una buona storia debba far sempre bene e male, lenire e ferire, nutrire e divertire. E sempre far crescere qualcosa in qualcuno; un po’ come la nutella, per capirci.
Ora che si sta facendo inverno e che ho bisogno di tenermi strette le persone che mi vogliono bene; ora che si va verso le feste e non voglio che chi amo venga irreparabilmente distratto dalla montagna di oggettistica da intrattenimento che ormai gravita bassa sopra tutti noi, ho già pronti i libri che darò. Li metto qui appresso tutti in fila, casomai tornasse utile a qualcuno la mia scelta per niente esemplare. Siccome io non sono un critico letterario, né vado in giro a dire che lo sono, nessuno troverà a ridire sulle mie scelte così poco ‟ragionevoli”, nessuno è obbligato a prenderle sul serio.
Me ne accorgo in questo momento, ma -guarda un po’- in cima ala pila non c’è una storia, ma una plaquette di poesia: Non vorrei crepare, di Boris Vian. A me sembra la cosa più splendente che ho letto di questo ingegnere morto ragazzo suonando il jazz, facendo poesie, scrivendo romanzi, girando films e ogni altra cosa linda e zozza che solo un angelo caduto riesce a fare, come lui, senza che ci fosse modo di mettere ordine, di capire, di imbrigliare in una interpretazione decente. Meglio così; ovviamente, meglio che Vian se ne sia andato lasciando tracce misteriose e inutilizzabili per gli intelligentoni. Ne ho comprato una decina di copie di questo libretto, al prezzo di lire mille cadauna. Perché si tratta appunto di un millelire Newton, un bellissimo millelire, con una traduzione niente male e una bella spiega di Cibotto; alla faccia di chi dice che tra quella roba hard discount c’è solo spazzatura. Ne ho comprato un bel po’ e le regalerò alle ragazze mie amiche e anche alle ragazze che dovessi incontrare solo per caso, adesso che il freddo tende ad immalinconirle, e a fargli gocciolare i nasi. Perché so che sorrideranno tutte, e Vian gli metterà un po’ di allegria anche a quelle piangione.
Un poeta
È un essere unico
In tanti esemplari
Che pensa solamente in versi
E non scrive che in musica
Su oggetti diversi
Sia rossi che verdi
Ma sempre magnifici.


American Tabloid, di James Ellroy. È uscito ieri e me lo sono già letto a scrocco di chi lo avrà in dono; sono trentamila lire che non posso raddoppiare. Del resto a me non piace tenermi in casa i libri di Ellroy: lui è il principe nero, la parte più scura dei miei pensieri. Dicono, ma solo per farlo vendere, che scriva polizieschi di genere (duro e nero), ma lui -da Dalia Nera in poi- non ha scritto altro che un circostanziato, fedele diario della sua vita e della vita della sua città. Ciò che rende profondamente morali le sue storie; e che dà loro un colore raccapricciante e quasi insostenibile, visto che nessuno è davvero disposto a cadere dentro una storia senza la rete di una consolazione, è la totale assenza di ipocrita misericordia. ‟L’America non è mai stata innocente”. Bene; lui, di demolire il mito fasullo dell’american way, se ne è fatto un’ossessione. Le parti più crudeli e inverosimili del suo raccontare, sono le più fedeli alla cronaca nuda e cruda. Non c’è mai un solo innocente nei suoi romanzi, non ce n’è mai uno che finisca bene, anche quando si capisce che lui stesso è lì dentro. Ci vuole una capacità di sofferenza, un eroismo, enormi per essere scrittori a quel modo; io per primo non ne sarei capace. Leggerlo è una penitenza necessaria, indispensabile, per quelli come me che vantano una speranzosità troppo poche volte messa alla prova.

Un altro diario dagli States, ma che ci volete fare, la meglio roba viene di lì. L’ho messo da parte per un mio amico che si sta separando dalla sua compagna, e non mi piace come s’è ingegnato di tirare avanti, e cioè frignando come un vitello allo scanno; un po’ di senso dele proporzioni, dico io. Caffè Bailey, di Gloria Naylor. Storie di donne, e dico che è un diario perché ho il forte sospetto che si tratti di storie vere, anche se quello che si legge è un bellissimo romanzo. Le sue bellezze sono tante e in primis quella che non si tratta del genere ‟storie di donne, per le donne, attraverso le donne” e così via. C’è un posto nel mezzo di New York: una pensione, un casino, un asilo, un riposo. Lì è sempre notte, lì arrivano donne che hanno consumato ogni altra risorsa della vita; l’estrema tana dove sperare di fare mattino, un qualche mattino. Arrivano donne da ogni parte perduta d’America, da ogni dolore e da ogni tormento, da ogni disperazione. Ci arriva persino dagli altopiani dell’Etiopia, a piedi, scalza, Mariam: una bambina gravida di un figlio impossibile, in esilio dal mondo intero. Passa ognuna dal Caffé Bailey, il punto più nero della notte di New York, e forse resterà fino al mattino, o forse se ne andrà a dormire nel fitto del buio. Sono certo che sono proprio storie vere; dolci pazzie senza consolazione, teneramente pietose. La parte chiara dell’America di Ellroy, quello che resta dell’innocenza in un lungo, ipnotico blues. Questo libro è uscito l’anno scorso da Feltrinelli e nessuno, ma proprio nessuno l’ha preso in considerazione. E questa è un’ingiustizia e uno spreco.

Poi nella pila viene un libro che ancora non so a chi andrà; perché val la pena di donarlo solo a qualcuno che sa ancora giocare senza vergogna, qualcuno che è davvero libero di essere allegro senza paura di mancare a qualche dovere di presenza. Sono i raccontini di Osvaldo Soriano appropriatamente intitolati Pensare con i piedi. Che non è mica una battuta di spirito, per fortuna, ma ne più ne meno di quello che fa chi gioca a pallone. Sono quasi tutti racconti di calcio, ma non è questo il punto, visto che a me, per esempio, del calcio non me ne frega niente. Raccontano, messi assieme, l’epopea di un ragazzo della Terra del Fuoco, l’epopea di una vita da niente in un paese da niente, l’epico avanzare nella vita di un bambino peronista a cui il generale ha regalato il pallone di cuoio. E va bene; ma negli ultimi tempi non ho trovato niente di più libero e allegro in una pagina scritta; una scompisciante saggezza e un movimento di calipso che mi fanno star bene ancora adesso. E poi lui, e solo lui, è riuscito a rintracciare finalmente il leggendario figlio di Butch Cassidy; faceva fino a pochi anni fa l’arbitro itinerante in Patagonia e la federazione calcio di là gli aveva accordato il permesso di entrare in campo con il revolver di suo padre alla cintura.

E poi alla mia compagna regalerò la Bibbia. Io spero che sarà la bibbia di casa nostra e, anche per questo, l’ho scelta con grande cura. È la Bibbia tradotta in Italiano da Giovanni Diodati, quella che andrà bene per noi. Non è un cimelio, anche se continuano a stamparla tale e quale da non so quanti secoli. È invece la più viva che conosco, perché è viva proprio la sua lingua, il toscano lucchese del milleseicento. Un italiano volgare che suona un po’ come la lingua della mia gente di qui: dolcissima quando canta e asprissima quando urla. Una lingua duttile e movimentata da innumeri inflessioni lessicali, ricca di variazioni in alto e in basso, di invenzioni e di commozioni. Ci deve star dentro a quella lingua il racconto del creato, l’universo intero, dagli angeli ai sassi, per questo è una lingua così ricca. Io francamente non so se è ancora in auge presso gli studiosi, se è al passo con l’attualità degli studi biblici; ma francamente non mi interessa. Non voglio regalare a casa mia il libro della Verità, ma solo la storia che assieme a tutto il resto dell’universo contenga anche la mia compagna e me, e i figli nostri se vorranno. All’uopo ho scelto un’edizione bella grande e robusta, con la copertina di spesso cartone battuto, con la bella carta fine che dura in eterno, la stampa nel carattere bodoni antico e grassottello che leggo anche alla lucetta da notte. C’è, ancor prima del titolo, il registro di famiglia, dove segnare chi nasce e chi muore nel tempo: è un libro fatto per durare, un buon libro per gli speranzosi.
Maurizio Maggiani
9551 battute.
La Sacra Bibbia, traduzione di Giovanni Diodati, edizioni SBBF, Società Biblica, £ 42000
Osvaldo Soriano: Pensare con i piedi. Einaudi £ 24000
Gloria Naylor: Caffè Bailey, Feltrinelli £ 28000
James Ellroy: American Tabloid, Mondadori £ 29000
Boris Vian: Non vorrei crepare, Tascabili economici Newton £ 1000

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1951) con Feltrinelli ha pubblicato: Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), màuri màuri (1989, e poi 1996), Il …