Paolo Rumiz: C'era una volta il passo

27 Agosto 2003
PASSO SPLUGA - A Chiavenna entri in un’Alpe arcana, piena di storie, locande, santuari, leggende. Qui le strade raccontano; per secoli hanno determinato ricchezza e decadenza dei luoghi. E qui si diramano in tutte le direzioni. A Sud il Lago di Como e la Padania. A Est la Valtellina, verso il Trentino. A Nord lo Spluga, un tempo Passo dell’Orso, re dimenticato dei valichi alpini, dove saliremo a piedi. A Nordest l’Engadina, con l’Inn che scende verso il Danubio. A Ovest gli alti valichi per il Ticino. E mille attraversamenti minori, tutti in concorrenza tra loro. Lì, nel bel mezzo alle Alpi di mezzo. Il paese è pieno di favole su transiti di carovane con vino, armi, salnitro, formaggio, tessuti e soldati mercenari. Si narra per esempio che Piuro, verso il passo del Maloia, fosse ricca al punto da offrire ai mercanti che sostavano al palazzo Vertemate - il più bell’edificio alpino della Lombardia - una fanciulla discinta per il dopo cena. La calavano dall’alto su un’altalena, attraverso una botola, dentro una camera detta "della delizia". Poi Dio punì tanta dissolutezza, e distrusse mezzo villaggio con una frana. Un pastore mi indica la valle che sale verso lo Spluga. Una screpolatura fantastica, dritta verso Nord e la valle del Reno. «Una volta - brontola - il passo non chiudeva mai d’inverno. I cavalli tiravano una griglia metallica, con sopra uomini che battevano la neve con gli scarponi. Li chiamavano "rottieri" e aprivano la strada alle slitte. Il traffico si fermava solo con le tempeste, quando le campane davano l’allarme. Oggi tutto si blocca a novembre, anche col bel tempo. Ormai, le Alpi si passano solo in tunnel». Sbuca il mio compagno di viaggio, è arrivato in moto da Milano. Si toglie casco e occhialoni. E' Albano Marcarini, grande esperto di strade. Fa preziose guide con acquarelli fatti da lui e si definisce «viaggiatore desueto». Porta la cravatta anche in gita per rispetto ai luoghi, odia l’auto, dorme solo in alberghi dai nomi antichi: Aquila d’Oro, Alla Posta, L’Orso Nero. Cartografo, viaggiatore e urbanista, lamenta di aver sbagliato secolo, perché «la stagione delle grandi esplorazioni è finita». Il suo modello: Luigi Bertarelli, fondatore del Touring. L’uomo che volle affrancare l’Italia dalla schiavitù del Baedeker. Si parte nella pioggia, con l’odore di legna e muschio. Passiamo Gallivaggio, il santuario immenso sotto gli strapiombi. Rasdeglia, la grande frana. Poi Campodolcino, col suo ponte medievale simile a quello di Mostar. Pernottiamo a Isola, in fondovalle, alla locanda «Il Cardinello», ultima stazione di posta sulla vecchia strada, prima del passo. Una costruzione antica, lontana dal traffico della Statale, gestita da tre secoli dalla stessa famiglia. Finalmente qualcosa di diverso dalla solita bomboniera tirolese. No, questa è roba nostra. Austera, ottocentesca, con il piatto di pizzoccheri fumanti che aspettano nella «Stua» di legno annerito. Il soffitto basso, la stufa in pietra, i dagherrotipi degli antenati in cornice, le assi che scricchiolano, le pareti sghembe, ormai prive di simmetria. Magnifico. Cinque commensali parlano a bassa voce in dialetto svizzero tedesco. Discutono di frane, sentieri, dighe. Uno di loro si presenta: Kurt Wanner, storico di Spluegen. Un armadio d’uomo. Conosce tutto della strada. Racconta del passaggio di Goethe, di Erasmo da Rotterdam, del generale francese McDonald che perse centinaia di soldati in una valanga, transitando d’inverno nella gola a monte della locanda. Nella pioggia, il racconto annulla le distanze temporali, diventa leggenda. Hanno dormito a lungo le vecchie strade dello Spluga. Erano almeno cinque, ricorda Marcarini. Una preistorico-romana, una romano-alto medievale, una del 1300, una del 1643, poi la variante del 1716. Un intrico illeggibile. Poi, vent’anni fa, sbucò un pastore, un autodidatta. Si chiamava Tomas Planta. Vagò a piedi per anni, riempì quadernoni di appunti, poi si presentò a un congresso e sfidò la cultura officiale. Ci misero anni i topi di biblioteca a capire che aveva ragione, e che quelle strade andavano ripulite e rese percorribili ai viandanti. Mattina grigia. Ci aspetta l’orrido del Monte Cardine, il malpasso dei viaggiatori. Il proprietario della locanda, Martino Raviscioni, legge «la Padania» al tavolo del bar. Ce l’ha con l’Italia che, dice, ha portato solo dighe ed espropri. «Qui era Svizzera e poi Austria, fino al 1859. Solo loro hanno aperto strade per questa valle». Ora che la gente ha ripreso a passare a piedi sui vecchi sentieri e a pernottare lì, il suo isolamento è finito. E' orgoglioso di sentirsi parte di una storia iniziata dai suoi antenati. Esce il sole, la gola comincia con un ponticello in legno, detto ponte degli svizzeri. Tempo fa un plotone elvetico passò nottetempo la frontiera per rimetterlo in piedi dopo un’alluvione che l’aveva spazzato via. Berna non poteva sopportare che gli italiani lasciassero andare in malora quella strada appartenuta un tempo ai Grigioni. Così spedì i suoi uomini che fecero il lavoro in giornata. Gli italiani fecero finta di niente, incassarono il lavoro fatto ed evitarono l’incidente diplomatico. Gli svizzeri ci tengono ai loro sentieri, ne rinnovano meticolosamente la segnaletica. Se ce n’è troppa, mandano uno a cancellarla, con la vernice grigia. Pietre come scudi argentati, franamenti. La gola si chiude. Il sentiero vi entra, scavato nella roccia viva. Il luogo ha una presenza simbolica impressionante, ci ricorda che siamo «nel mezzo del cammin» in questa lunga traversata alpina. Poi tutto si riapre. Lunghi muretti rettilinei delimitano i pascoli alti. Compare la diga e la spianata del passo. Ma il tempo cambia di nuovo. Fulmini, freddo, quasi nevica. Ripariamo all’hotel Posta con alcuni motociclisti infreddoliti. Oltre, inizia un mondo spettrale, nordico, senza colore.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …