Paolo Rumiz: Il treno dei ghiacciai

27 Agosto 2003
TIRANO - Il trenino svizzero lo riconosci prima dall’odore. Non emana quell’amalgama stagionato di piscio, diserbante e sudore che regna nelle nostre stazioni. Se lo avvicini a occhi chiusi, fiuti sapone di Marsiglia, legno di abete, cioccolata espresso. Solo dopo questa degustazione olfattiva è lecito aprire gli occhi. Eccolo. Il bruco rosso kodak che dalla valle dell’Inn mi porterà sui ghiacciai del Bernina, lungo la linea più alta d’Europa. Aspetta ronfando sul binario due con la scritta ladina «Viafer retica», lo spartineve sul muso e lo scudo con lo stemma dei Grigioni. Stazione di Scuol, Bassa Engadina. Architettura alpina fine Ottocento, salottini trasformati in sale d’aspetto, biglietterie farmaceutiche, dépliant allineati a disposizione, epiche gigantografie di stazioni e viadotti. Un manifesto mostra il guardalinee che ogni giorno, alle 4.45, parte dalla stazione di Bergun col suo solitario carrello. Fuori, prati rasati, cataste di legna, l’autobus che aspetta la coincidenza. Tutto facile, silenzioso, accessibile. A bordo, gitanti con gli zaini e i bastoncini telescopici. Accanto, un anziano che legge la "Neue Zuercher Zeitung". In fondo, gli scout di una colonia estiva, che discutono l’itinerario sulla carta al 25 mila. Improvvisamente me ne rendo conto: il mio non è un treno. E' un’icona nazionale. Se non passasse, questa gente andrebbe in crisi di identità. Sui vagoni, gli elvezii banchettano, decidono di politica, sognano, fanno l’amore. La ferrovia è il loro legame ancestrale. L’unico, forse, in questa babele di cantoni e lingue federali. Si parte. Castelli, boschi, cielo blu genziana, neve fresca in quota, ciclisti che vanno, traffico stradale quasi zero, l’Inn che spumeggia verso l’Austria. Si va via lisci, senza contraccolpi. La differenza con l’Italia è anche acustica. Non c’è il tu-tun tu-tun. Solo un’andatura senza scossoni, dolce, quasi erotica. Con una voce femminile che in due lingue - tedesco e romancio - ti sussurra i nomi delle prossime fermate come se ti dicesse: seguimi, straniero. Il Canton Grigioni somiglia al Tirolo, ma è meno lezioso, ha meno gerani alle finestre e meno coreografie spagnolesche. Compaiono le sobrie guglie delle chiese protestanti. C’è più austerità, ma anche più comunicativa. E di nuovo ti prende quella curiosa sensazione di tornare a casa anziché uscirne. Come finisce l’Alto Adige, l’Italia ricompare nei menù, nelle pizzerie, nei gesti, nella lingua. Finiscono le consonanti dure, comincia la musica del mondo latino. Non più «Hauptstrasse», ma «Via maistra». Non «Schuhmacher» ma «Calghèr», calzolaio. Samedan, stazione di Samedan. Una scenetta dal finestrino. Un treno arriva da Saint Moritz, direzione contraria, un carrello su gomma gli si affianca, si ferma accanto alla carrozza postale. Ed è già un colpo al cuore, visto che con la privatizzazione mezza Europa ha tolto questo servizio alla rotaia. I sacchi di corrispondenza vengono deposti con cura sul mezzo a terra che in sessanta secondi finisce il lavoro e passa sull’altro binario per la coincidenza. Ma non basta. Dal medesimo vagone esce una bici amorevolmente protetta da una gualdrappa di plastica con lo stemma delle ferrovie elvetiche. Un addetto la prende, sale sul mio treno, la appende a una rastrelliera verticale con un gancio speciale. La chiude con un lucchetto. Fantastico. Svizzera resisti. A Pontresina il vagone si riempie di giapponesi in estasi, riparte, punta sul Bernina, il Quattromila più occidentale delle Alpi. L’andatura felpata finisce, ora il treno stride, cigola, si avvita su se stesso. In curva è impossibile passare da una carrozza all’altra, le curve sono a 45 metri di raggio e l’angolatura tra i vagoni è tale che il predellino si trasforma in trapezio. Non si va oltre i trenta orari, si penetra un terreno minerale, tibetano. Vento, campanacci, pietraie, ghiacciai. Breve sosta sul punto culminante, il ristorante-stazione «Ospizio Bernina», metri 2256, dormitorio e acqua corrente. Dicono che d’inverno, con la luna, sia un posto favoloso. Le ferrovie vi forniranno le slitte per tornare a valle. Si scende verso Poschiavo, ultimo pezzo di Svizzera prima di Berlusconia-Italia. Il treno scende guardingo per più di mille metri, compie evoluzioni inconcepibili, curve elicoidali tra i larici, incontra alpinisti, fischia, si infratta come un bracconiere. Il controllore spiega che questa linea-simbolo della diversità elvetica l’hanno fatta gli italiani. Tremila uomini in tre anni soli, un record. Gli stessi italiani che oggi smantellano le linee di casa loro, o le lasciano andare in malora per farne binari da rottamare. A Poschiavo i treni non si limitano ad arrivare e partire. Atterrano e decollano, tanto forte è lo scarto di pendenza tra la stazione e l’unico binario che sale. Il nostro convoglio in arrivo dai ghiacciai frena, sembra sbattere contro il Bernina Express in attesa di partire per Coira, poi devia al millimetro, quasi deraglia, gli si allinea accanto, si ferma. Il capo-deposito, Mario Costa, mi porta a vedere l’officina. Anche qui, una clinica. Con la motrice Gem 44 appena rimessa a nuovo, odore di grasso e vernice. «Per questa valle la ferrovia è tutto - racconta - senza di lei sarei dovuto emigrare». Si parla lumbard, ma è ancora un mondo ordinato. E così ti assale l’impressione di entrare in una Padania diversa, capace di federalismo reale, responsabile, non furbesca o prona di fronte agli Unti del Signore. E su quel trenino rosso fuoco che scivola verso la frontiera, simbolo lucidato della Cosa pubblica, la tua impressione diventa rabbia. Non puoi nemmeno dire: sono crucchi, hanno l’ordine nel dna. No, sono latini come noi. E allora non hai più alibi. Capolinea, stazione di Tirano, Italia. Si scende. Domani cercheremo un Dalai Lama sui monti della Valtellina.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …