Umberto Galimberti: Dov' è finita l'etica nel mondo del dio mercato?

14 Novembre 2003
Giuliano Amato, nel suo rigoroso e appassionato intervento su quel tema importante costituito da "I confusi confini tra etica e impresa", pubblicato da Repubblica lunedì 20 ottobre, ritiene che l' economia sia ancora e debba essere compatibile con l' etica, mentre da parte mia non vedo quale etica possa essere all' altezza dell' economia divenuta «globale». La globalizzazione che, a mio parere, rende impraticabili le etiche che, sia sul versante cristiano, sia sul versante laico, sono state finora formulate. In Occidente abbiamo conosciuto fondamentalmente tre etiche: l' «etica dell' intenzione», che maturata nel solco profondo della tradizione giudaico-cristiana, ha fatto da sfondo e forma a tutto l' ordine giuridico europeo. Ancor oggi i giudici, per giudicare un' azione, indagano se questa è «volontaria», «intenzionale», «preterintenzionale», cioè discutono dell' intenzione dell' attore. La domanda che ci poniamo è: nell' età della tecnica e dell' economia globale, l' etica dell' intenzione è ancora praticabile? Direi che la risposta è no, nel senso che non è interessante sapere che intenzioni aveva Fermi quando ha inventato la bomba atomica, molto più importante è conoscere gli effetti della bomba atomica. Non sta molto meglio l' «etica laica» che qui per brevità riassumo in quella bella frase di Kant: «L' uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo». Si tratta di un' etica che non è ancora stata realizzata, se è vero che oggi le merci e il denaro godono di maggior libertà di circolazione degli uomini, per cui merci e denaro sono già concepite come finalità superiori alla sorte dell' uomo. E tuttavia, l' etica kantiana, anche se fosse realizzata, si rivelerebbe un' etica ancora insufficiente perché: cosa vuol dire che l' uomo è un fine e tutte le cose sono un mezzo? Oggi, ad esempio, l' aria è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? Non si dà il caso che finora abbiamo pensato solo a etiche che regolano i rapporti tra gli uomini, mentre oggi dobbiamo farci carico anche degli enti di natura che nessuna etica, da noi finora elaborata, ci ha prescritto di farci carico. Un tempo gli uomini erano pochi e tutto era «mezzo» a servizio dell' uomo, oggi gli uomini sono molti e i mezzi sono ridotti. Probabilmente quello che abbiamo concepito fin ora come semplici «mezzi» non sono più «mezzi», ma «scopi» da salvaguardare. Quale etica abbiamo a questo proposito? All' inizio del secolo scorso Max Weber ha proposto l' «etica della responsabilità», poi ripresa da Hans Jonas. Un' etica che nasce da questa considerazione di Weber: viste le modalità con cui si espande l' economia, visto quel che sarà il futuro della nostra storia sempre più segnato dal dominio della tecnica, dobbiamo pensare un' etica che ci renda responsabili degli effetti delle nostre azioni. A questo punto però Weber apre opportunamente una parentesi «finché questi effetti sono prevedibili». Se non che è proprio della tecnica produrre effetti imprevedibili. Chi avrebbe previsto, ad esempio, la clonazione, gli organismi geneticamente modificati, e quant' altro i progressi della tecnoscienza quotidianamente ci offrono? Qui l' etica diventa «pat-etica», nel senso che, come a più riprese scrive Emanuele Severino: «Chiede alla tecnica che può di non fare ciò che può», e, in versione economica, chiede al mercato in espansione di contenere la sua forza espansiva se questa danneggia le popolazioni più povere. Qui l' etica non oltrepassa mai il livello dell' invocazione, come risulta a chiunque abbia partecipato a un comitato bioetico. Chiedere alla ricerca scientifica di fermarsi a riflettere è un' invocazione, chiedere al mercato di occuparsi del mondo povero è un' invocazione. L' etica non ha forza. Qui allora bisognerà pensare ad altre etiche, perché quelle che abbiamo a disposizione, quelle che sono state pensate in Occidente, nel nostro tempo non sono efficaci, per le dimensioni che ha assunto la tecnica e per le dimensioni che ha assunto l' economia. Il mutamento qualitativo, che deriva dall' aumento quantitativo di un fenomeno, determina quella che i filosofi chiamano «eterogenesi dei fini», ben illustrata da Marx, buon lettore di Hegel, là dove dice: noi siamo abituati a considerare il denaro come un «mezzo» in vista di quei fini che sono la soddisfazione dei bisogni e la produzione dei beni, accade però che se il denaro diventa la «condizione universale» per soddisfare qualsiasi bisogno e per produrre qualsiasi bene, allora il denaro non è più un «mezzo», ma diventa il «fine», per accaparrarci il quale, si vedrà se soddisfare i bisogni e se produrre e in che misura i beni. In questo modo ciò che antropologicamente percepiamo come «fini» (soddisfazione dei bisogni e produzione di beni), diventano «mezzi» per produrre denaro, se il denaro è diventato «condizione universale» per realizzare qualsiasi scopo. Quando infatti qualcosa è «condizione universale» per realizzare qualsiasi scopo non è più un «mezzo» ma è il primo «scopo» di ogni attività. è questo un ragionamento che possiamo applicare anche alla tecnica: se tutti gli scopi possono essere realizzati solamente a partire da una disponibilità di strumentazione tecnica, la tecnica non è più un mezzo, ma diventa uno scopo, il «primo scopo», per realizzare il quale, subordinerò tutti quelli che prima concepivo come scopi. Ne è un esempio l' apparato tecnico americano che era un tempo equipollente all' apparato tecnico sovietico. Allora nessuno ipotizzava il crollo del comunismo, che è caduto non perché in Unione Sovietica mancava la libertà, perché la gente stava male o per ragioni antropologiche di questo tipo, ma perché a un certo punto il dispositivo tecnico sovietico è risultato così inferiore al dispositivo tecnico americano che, per la realizzazione delle finalità che il comunismo si proponeva, non c' erano più i mezzi. Questo un esempio che dimostra come il dispositivo tecnico, che noi siamo sempre abituati a pensare come un «mezzo», è diventato uno «scopo», ossia ciò senza il quale nessuno scopo si realizza. Ora nel campo economico succede qualcosa di analogo. Il «mezzo» che l' economia assume come suo indicatore oggi è il denaro. Non è sempre stato così, lo è solo da quando l' economia è divenuta, nella seconda metà del settecento, con Adam Smith, un sistema scientifico. Prima tante erano le azioni umane, e anche di grande valore economico, che avvenivano su scenari non necessariamente monetari, come ad esempio gli scenari simbolici, i rapporti di gerarchia, le forme di prestigio. Basti pensare ad Aristotele per il quale il denaro, essendo il simbolo di un bene, non può produrre beni, «pecunia non parit pecuniam». Dovessimo stare a questo assunto, la finanza non esisterebbe. Quando il denaro diventa la forma unica dell' economico, e l' economico diventa la forma del mondo, si sviluppa una qualità di pensiero, un tipo di razionalità (non si dimentichi che la parola «ragione» nasce in ambito economico, essendo la «ratio» la contropartita in uno scambio: redde rationem) che si limita a far di conto, quella che Heidegger chiama «pensiero calcolante» (Denken als Rechnen) che sa fare solo conti, che sa solo calcolare, che sa fare solo operazioni con numeri, che guarda vantaggi e svantaggi, profitti e perdite, che si configura esclusivamente nell' utile. Qui è l' essenza del «pensiero unico» dove i criteri di valutazione sono «produttività», «efficienza», «calcolo», accanto ai quali non ci sono pensieri alternativi o, se ci sono, sono pensieri marginali, ciò intorno a cui non accade mondo. Penso ai pensieri «filosofici», «teologici», «poetici». Sono pensieri possibili, gratificanti, ma il mondo non si organizza a partire da questi pensieri. Allora qui la prima domanda che si pone è questa: siamo consapevoli che la diffusione anzi l' egemonia dell' economico, indicato esclusivamente dal denaro, possa costituire l' unica forma di pensiero a cui educare tutta l' umanità? E ancora: non è proprio qui il luogo decisivo del fallimento etico? Se tutti pensiamo in termini economici, che spazio c' è per un pensiero altro che non sia quello economico? E l' etica è un pensiero altro. Abbiamo stabilito prima un nesso tra tecnica ed economia e lo abbiamo individuato nel «mercato», che è divenuto così razionale da eguagliare la tecnica che è la forma più alta della razionalità raggiunta dall' uomo. A lei subordinata è l' economia che io considero ancora un' espressione «antropologica», perché ancora soffre di una passione umana, da cui è esonerata la tecnica, che è la passione per il denaro. Mi chiedo: in un mercato tecnicizzato è ancora consentito «agire» o non resta altro che «fare»? Colui che opera in un apparato «agisce» o «esegue»? E qui non penso solo all' impiegato, ma anche all' imprenditore che è a sua volta privato della possibilità di «agire» perché deve «eseguire» cioè «seguire» azioni descritte e prescritte dal mercato. A questo punto se «agire» vuol dire compiere delle azioni in vista di uno scopo, e «fare» vuol dire invece eseguire azioni già descritte e prescritte dall' apparato, che nella fattispecie è il mercato, allora come possiamo introdurre un' etica là dove nessuno più «agisce», perché tutti si limitano a «fare» e a «eseguire»? Mi vengono in mente quelle risposte che i generali nazisti davano quando venivano catturati e processati. Si chiedeva conto della loro condotta ed essi rispondevano: «Ho eseguito ordini». Qui abbiamo un esempio di cosa vuol dire passare dall' »agire» al «fare». Perché colui che fa non è responsabile dei fini ultimi. Se io lavoro in una banca e questa banca, per ipotesi, sovvenziona la produzione delle armi e la sua esportazione io, impiegato, non sono responsabile: primo perché non sono tenuto a conoscere i fini ultimi, secondo perché, se anche li conoscessi, non sono autorizzato a prendere posizione. Allora qui io «faccio», ma non «agisco» più, perché i fini mi sono sottratti. Ecco, se per noi ormai l' »agire» si riduce a «lavorare» dove il lavorare consiste nella pura esecuzione di azioni già descritte e prescritte, io sinceramente per l' etica non vedo alcuno spazio. Non disponiamo di un' etica all' altezza della tecnica e dell' economia globale. Qui bisogna incominciare a pensare.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …

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