Gabriele Romagnoli: La guerra vinta dalla Mecca Cola

03 Febbraio 2004
Parigi - In proporzione, non è stata Halliburton, né alcuna altra società legata all' amministrazione di Washington ad avere tratto il maggior profitto dall' invasione dell' Iraq. è, invece, una piccola compagnia creata con 22mila euro alla vigilia dell' operazione e che oggi ha 8 milioni di profitti, fa dell' antiamericanismo la propria campagna pubblicitaria permanente, trova nuovi clienti (assicura il fondatore) «ogni volta che Bush appare in tv e dice una fesseria». Il suo nome è "Mecca Cola". Il suo slogan: «Non bere da stupido, scuoti la tua coscienza». Il suo prodotto una bottiglia simile a quella della Coca Cola, ma con la scritta «Per favore, non mischiate con alcol» e il talloncino del concorso per vincere 10 pellegrinaggi nei luoghi sacri dell' Islam. In poco più di un anno si è diffusa in 45 Paesi, Iraq incluso. Altri nove stanno per aggiungersi alla lista. Alle porte di Sana' a, nello Yemen, ho visto ultimare i lavori per un nuovo stabilimento. All' aeroporto di Amman ho visto una bambina stringere in mano la lattina «al gusto di libertà» e offrirne un sorso alla sua bambola Rezzane, l' anti-Barbie con il velo. Nelle strade di Belleville e Barbes, a Parigi, l' ho vista esposta con orgoglio sui banconi delle macellerie musulmane, incoraggiando poco ortodossi accostamenti con la carne. Alla periferia di Parigi tutto è cominciato e qui ancora si trova la sede amministrativa della società: una targa dispersa tra altre in un grigio palazzo di uffici. Il fondatore, un uomo di 47 anni di origine tunisina di nome Tawfik Mathlouti, fissa un appuntamento alle otto della sera, tra un arrivo e una partenza per controllare la produzione a Brasilia e Kuala Lumpur. La sua valigia è appoggiata in un angolo del salottino. Lui è in qualche stanza, al telefono. Alle pareti ci sono disegni di bambini che ritraggono la loro bevanda preferita. Sugli scaffali copie del Corano, «Freud e l' antisemitismo», «Lo spettro del terrorismo» e un riconoscimento attribuito dalla fondazione «Arab Tought», creata da un principe saudita. I gadget della Mecca Cola (cappellino, maglietta, pallone, tutti su sfondo rosso Atlanta) stanno in una bacheca. Le varianti «diet», arancia e gusto di mela sono allineate su un ripiano. Sul tavolo c' è l' etichetta staccata da una bottiglia di Coca Cola. La giro al contrario e metto controluce. E' una vecchia teoria del complotto, secondo cui in questo modo si leggerebbe, in calligrafia araba: «Né Maometto, né Mecca», come se, decenni fa, nel profondo della Georgia, avessero avuto già in mente lo scontro di civiltà con qualcosa che forse nemmeno conoscevano. Eppure la storia circola. E' l' indizio di un sentimento popolare pronto a diventare strategia di marketing. Un tentativo c' era già: si chiamava Zam Zam Cola, dal nome di una fonte sacra, e veniva dall' Iran. Ma quando Mathlouti si propose come agente per diffonderla in Francia gli risposero di no. Allora fece da solo. Andò su Internet e diede al motore di ricerca le parole «ricetta» e «Coca Cola». Ottenne un centinaio di risposte. Le provò tutte, in un solo giorno di assaggi furibondi. Ne scelse una e la lanciò. Era consapevole che non il gusto contava, non il packaging materiale, quanto quello ideologico. L' imprenditore che si fa vanto di non avere mai portato i suoi figli a un Mc Donald' s cavalcò l' onda dell' antiamericanismo, in Europa prima ancora che in Medio Oriente. Il boicottaggio riesce meglio quando c' è una disponibile alternativa. E' quello che molti imprenditori arabi stanno capendo. Lo si intuisce, ad esempio, camminando per le strade di Dubai e vedendo, lampeggiare, con gli stessi colori del Kentucky Fried Chicken, l' insegna del pollo fritto Damascus Fried Chicken. Mecca Cola ha indicato la via. Entrare sul mercato è stato facile; rimanerci, più dura. Quando prende una pausa dalle telefonate intercontinentali Mathlouti racconta ostacoli e minacce. Da un alto le «grandi compagnie», che ha cura di non nominare e i sospetti polizieschi. Dall' altro i fondamentalisti. Mostra una lattina e dice che ottenerla per lui non è facile. Una società polacca con cui aveva fatto un accordo all' ultimo istante ha preferito restituire i soldi e stracciare il contratto. Perché? «Lo immagini». Estrae da un cassetto una bottiglia con l' etichetta Mecca Cola, ma l' aspetto del tutto diverso. «Questa circola in Pakistan, ma non è nostra. Vede la forma? Le ricorda per caso una delle grandi? Sì? La fanno loro e ci mettono il nostro nome, capisce? C' è un loro dirigente in carcere a Lahore per questo». Mathlouti c' è stato, in Pakistan, ma con dodici guardie del corpo al seguito: agli estremisti islamici del luogo non piaceva che il nome di un luogo sacro venisse usato per vendere. Più delle minacce, hanno avuto efficacia le dicerie: «Mecca Cola è finanziata dai giudei, per screditarci». L' altra diceria è che il 10% dei ricavi, che si proclama dato in beneficienza, finisca a organizzazioni della lotta armata palestinese. «I miei conti sono a disposizione - ribatte Mathlouti - finanzio ospedali e scuole per bambini palestinesi». I detrattori hanno creato un sito Internet che storpia il nome della bevanda e mostra come finanzia i piccoli a Gaza: con una cintura kamikaze. In realtà, dietro il fumo delle ideologie, l' arrosto è una società che ha sfruttato una nicchia di mercato, funziona esattamente come una sorella occidentale e globalizzata, con subappalti in Paesi lontani dove il lavoro costa poco, controlli di qualità e un marketing aggressivo e mirato. Il suo creatore, che già possiede una radio e appare continuamente in televisione, lascia il sospetto di essere pronto al passo successivo: la discesa nel campo della politica. Esprime opinioni forti e senza giri di parole: «Bisogna trattare, ma non con Sharon, con lui il solo negoziato possibile è la sedia elettrica», «Israele è il paravento dietro cui i leader arabi nascondono la loro incapacità», «I popoli arabi non debbono liberarsi dall' America ma dall' ignoranza: hanno governi corrotti, imam conniventi, intellettuali che se la spassano in esilio e loro vivono come animali, invece di darsi da fare». Questo, più che le bollicine in lattina è quel che chiama «scuotere le coscienze». Chi è convinto che, dopo sceicchi e colonnelli, gli arabi si affideranno, pure loro, a tycoon populisti, ha un nome da segnarsi a futura memoria.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …