Gabriele Romagnoli: Hassan, Ahmed, Alaa

19 Maggio 2004
Ogni tanto arriva in Libano qualche delegazione internazionale, e si finisce inevitabilmente per visitare, dopo gli splendori di downtown Beirut, le miserie dei campi profughi. Tutti conoscono Sabra e Shatila, molti Ain al-Hilweh. Solo quelli che ci sono stati sanno di Mieh Mieh, a sud, vicino a Sidone e di Nahr al-Bared, a nord, dalle parti di Tripoli. I campi dei profughi palestinesi si somigliano tutti: baracche, banchi che vendono ciarpame, musica, rabbia e foto di martiri. Questa è la storia di due di loro, lo specchio che riflette due facce di questo mondo. Nel campo di Mieh Mieh troneggia l'immagine del giovane Hassan Huleiman. Indossa una mimetica, imbraccia un fucile. Ha il volto sereno e deciso. Un raggio di luce gli piove alle spalle, ne illumina le sembianze e allunga le ombre di una moschea che sta sullo sfondo. Hassan aveva diciotto anni quando è morto. È accaduto l'11 dicembre 2003 in Iraq, a ovest di Bagdad, in un attentato suicida. Era partito insieme con altre centinaia di volontari per combattere l'invasore. Molti sono tornati disgustati, traditi dai soldati di Saddam, che li avevano venduti al nemico. Altri sono ancora là, combattono nella guerra dichiarata finita quando era solo all'inizio. Hassan non tornerà mai, neppure cadavere. Il suo corpo, hanno spiegato al padre, l'orgoglioso Jamal, era troppo sbrindellato per essere ricomposto. Era un "partigiano di Dio", così si chiamava il suo gruppo, e la famiglia è convinta che una divinità benevola l'abbia accolto, di nuovo integro, nella luce. Hanno tenuto una cerimonia per commemorarlo e ne onorano l'immagine, insieme a quella di altri martiri caduti combattendo Israele. Ce ne sono molti, in effigie, anche nel campo di Nahr al-Bared, due chilometri quadrati in cui sono stipate trentamila persone. Tra i martiri compare un ragazzino davvero troppo giovane per aver fatto qualunque guerra. Il suo nome è Alaa Lubani. Ha i capelli corti, indossa una felpa con la scritta americana, siede su una seggiola di bambù, non porta armi e non ha gloriose luci alle spalle che ne inondino il proscenio. Quando è morto aveva dodici anni appena. È accaduto il mese scorso. Non al confine con Israele, non in Iraq, ma qui, nel campo profughi. Una scritta informa che si tratta di un "martire dell'istruzione". Che cosa ha prodotto il sacrificio del giovane Alaa che viveva con i genitori, andava a scuola, e dopo vendeva dolciumi in una bancarella, mettendo insieme quaranta dollari al mese? È morto poco fuori dalla sua classe, nell'intervallo delle lezioni. È stato accoltellato da un altro ragazzino, che aveva solo un anno in più, di nome Ahmed. I due avevano cominciato una discussione, presto divenuta una lite. La famiglia di Ahmed era nota nel campo per la sua inclinazione alla violenza. Il fratello maggiore era scappato in Germania dopo aver commesso, proprio lì, un omicidio. Portare un coltello era ritenuta una misura di sicurezza contro possibili vendette. È diventato un modo di porre fine al litigio con Alaa. Per che cosa? I due ragazzini stavano discutendo su Star Academy, un programma televisivo, versione panaraba di Saranno famosi, in cui bisogna votare per scegliere il giovane aspirante artista più dotato. Ahmed e Alaa la pensavano diversamente. Uno di loro aveva il coltello, l'altro no. Uno è diventato un assassino, ora detenuto in una prigione, chiamata Roumieh, nota per le violenze tra carcerati. L'altro è divenuto un "martire dell'istruzione". Il rappresentante di un'organizzazione non governativa è andato nel campo per cercare di evitare faide. Ha spiegato che secondo lui "tutti e due i ragazzi sono vittime". Non ha detto "martiri".

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …