Gabriele Romagnoli: Lo chiamavano Karate Kid

19 Maggio 2004
Non avevo mai sentito parlare di un fondamentalista islamico soprannominato Karate Kid, finché Saadeddin Ibrahim è venuto a Beirut. Lui è un sociologo egiziano, attivista in difesa dei diritti umani, a lungo detenuto per quelli che si definiscono reati d'opinione. Scarcerato, gira il mondo tenendo conferenze in cui cerca di spiegare come è possibile, secondo lui, liberare i Paesi arabi dalla minaccia dell'integralismo, ma anche dai regimi. Per questo motivo si trovava in Libano. Eravamo al bar di un hotel sul lungomare, quando gli è squillato il cellulare. Ha conversato per qualche minuto in arabo, poi richiuso l'apparecchio. "Era Karate Kid", ha spiegato. "Karate chi?". Erano gli anni Novanta. Il giovane Hassan era diventato campione egiziano di arti marziali, ma la stessa concentrazione che metteva nel combattimento la dedicava alla sua seconda passione: lo studio del Corano. La moschea che frequentava, nel popoloso e povero quartiere di Imbaba, al Cairo, lo avviò a una concezione estrema del testo sacro. Entrò in contatto con la corrente wahabita, viaggiò fino all'Arabia Saudita dove ne incontrò i maggiori esponenti. Finì, inevitabilmente, in Afghanistan, a distruggere televisori. Frequentò campi di addestramento, mise la sua forza controllata al servizio di progetti violenti. Tornò in Egitto, con la barba lunga, le vesti tradizionali e l'idea di uno Stato dove la religione è, anche, legge. In qualche modo partecipò alla sua creazione. Imbaba divenne una repubblica a sé, con proprie istituzioni fedeli a rigide concezioni e un sistema capace di garantire legge e ordine di cui Karate Kid faceva attivamente parte. La cosa andò avanti per anni, finché arrivò la stampa. Una giornalista della Reuters scrisse un lungo reportage intitolato "La libera repubblica di Imbaba". Il governo centrale fu costretto ad ammetterne l'esistenza e, di conseguenza, a cercare di cancellarla. Mandarono l'esercito. Fu un assedio. La superiorità schiacciante delle truppe regolari era compensata dalla determinazione di Karate Kid e degli altri. Crollarono dopo settimane. Lui fuggì, entrando in clandestinità. Aveva avviato un percorso che l'avrebbe potuto portare dritto tra le braccia del dottor Zawahiri e di Al Qaeda. Che cosa è "andato dritto"? Quando era una voce tollerata Saadeddin Ibrahim aveva un programma televisivo. Fece un'offerta a Karate Kid: "Dovunque ti trovi, porto una telecamera e ti dò un quarto d'ora per spiegare le tue ragioni". Il patto fu segretamente accettato. Le riprese avvennero. In quei quindici minuti Karate Kid non si giocò la popolarità, ma la salvezza. Parlò e apparve per quel che era: un giovane uomo intelligente e deviato, ma capace di nuove svolte. Il giorno dopo la trasmissione Saadeddin ricevette due telefonate: nella prima il governatore di Giza offriva la grazia al clandestino. Nella seconda un imprenditore gli proponeva un prestito per iniziare un'attività. Aggiunse però: "Sappia, prima di rispondere, che io sono cristiano". Il doppio messaggio fu fatto arrivare a destinazione. Tempo una settimana e Karate Kid apparve nello studio di Saadeddin Ibrahim, sbarbato, con jeans e maglietta, pronto a ricevere grazia e prestito e a ricominciare. E adesso? "Quando vieni al Cairo ti faccio vedere", risponde Saadeddin, inarcando le sopracciglione. Quando vado al Cairo mi porta in una piazza a Imbaba. C'è un piccolo negozio di panini, che fa buoni affari. Dietro il bancone c'è un uomo che fuma il sigaro e si stappa una birra. "Quello è, o meglio era, Karate Kid", mi dice. Aggiunge: "Se vuoi intervistarlo ha un tariffario. Per le tv americane è alto, per un giornale europeo fa sconti". Scuoto la testa: ho abbastanza materiale per scriverne senza alimentare la convinzione che il libero mercato sia un paradiso.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …