Vittorio Zucconi: La memoria

27 Maggio 2004
Undici lettere nel granito nero, scolpite di fresco da un passato infinito che diventa brivido del presente. «E. Alan Brudno», dice da oggi il nome numero 58.245, inciso in quel muro del Vietnam che si allunga, mentre già una nuova guerra lavora per produrre i monumenti di domani. Suicida per effetto postumo di torture subite, è la causa di morte. Tortura. Una parola che a Washington si preferirebbe non sentire. La prima "E" sta per Edward, Edward Alan Brudno, ma sedici lettere non ci sarebbero state. Anche undici lettere erano sembrate troppe al Pentagono che per vent'anni le aveva respinte, che avrebbe voluto evitare allusioni imbarazzanti, perché il tenente Brudno, copilota di un Phantom F4, non fu ucciso dalla contraerea né dal nemico. Dopo sette anni e mezzo di angherie nelle mani dei carcerieri vietnamiti che cercavano di ammorbidirlo, di soften up come si dice nel gergo degli interrogatori, tornò in America e si ammazzò. Lasciò un orologio digitale al fratello e una poesiola. Un verso dice: «La tortura corrode l'anima, come le termiti corrodono le assi del mio letto». Fra i 58 mila e 245 caduti ammessi sul «Wall» di Washington, il tenente Brudno è il primo e finora l'unico suicida. Non era dunque un eroe di guerra, era un giovanotto di buonissima famiglia ebraica a Boston, figlio di un medico docente, laureato in ingegneria all'eccelso "Mit", ufficiale volontario, come fu volontario Kerry, un altro Bostoniano. La sua missione era condurre ogni notte inutili bombardamenti sul sentiero dei rifornimenti alla guerriglia, il sentiero di Ho Chi Minh. Arrivato alla 35esima missione nell'estate del '66, la coda del suo jet fu tranciata da un missile Sam. Si sparò fuori nella notte insieme con il pilota. Furono catturati immediatamente. Prima di svenire, per le botte e per lo shock, rispose «sono vivo», «sono vivo» al compagno pilota che chiamava il suo nome al buio. Cominciò la solita via dolorosa tra il lurido «Hanoi Hilton», che era la Abu Grahib dei Nord vietnamiti, e gli stalag periferici, spostato per sfuggire alle missioni di salvataggio. Arrivarono una notte anche per lui, i Rambo su 12 elicotteri scortati da un C 130 Hercules, in una prigione al porto di Haiphong, soltanto per scoprire che Brudno e i suoi compagni erano stati trasferiti in altro campo la sera prima. Lo torturarono, i vietnamiti, un po', non troppo, spesso, non per ucciderlo, perché l'aguzzino astuto non uccide mai, la vittima è il suo giocattolo, scopo del «gioco» è tenerlo in vita, spezzandolo senza romperlo. Celle di isolamento ad ascoltare il lavoro di tarli e termiti, umiliazioni, mind games, tormenti mentali, irrisioni, sempre solo, a cercare di ricordare i passaggi di quella Torah che da ragazzo aveva trascurato, a comporre poesie nella sua mente. «è tanto duro esprimere come il tormento mentale giochi la sua partita insidiosa», componeva. Aspirava a fare l'astronauta e sbarcare sulla Luna. Seppe che l'America ci era arrivata soltanto al ritorno a casa, nel 1973. Anche quel treno per lui era già passato. Per non farlo morire di lenta inedia, con le 700 calorie quotidiane della tazzina di riso e zuppa di verza, un terzo del minimo necessario, lo costringevano a leggere propaganda alla radio, la solita spazzatura. «Ci trattano bene, ci vergogniamo della infame aggressione imperialista, oggi ho mangiato un ottimo pasto Bfd». Bdf? A Boston, il fratello, Bob, ascoltò la ritrasmissione e capì. Bfd stava per Big Fucking Dinner, un fottuto cenone, un codice famigliare per dire una porcheria immonda. I carcerieri non capirono, la famiglia sì. Il fratello Bob e la moglie Debby risero e rabbrividirono segretamente, la madre si offese. «Gli ho detto mille volte di non usare parolacce», racconta il "Washington Post" che ha ricostruito la sua storia altrimenti anonima come quella degli altri 58 mila. Fu liberato nel 1973, dopo la firma della resa americana. Le foto ce lo mostrano che scende dal cargo, la moglie, il fratello, la madre che lo aveva perdonato, che lo abbracciano, il colonnello di turno che gli stringe la mano, Alan che sorride vacuo. Chiese, per prima cosa, un registratore, per incidere quelle poesie rimate. «Di fronte all'orrore violento, la mente tenta di resistere al tormento, ma la carne è troppo debole e si fa ogni giorno più flebile», suona più o meno la traduzione. I versi non erano da storia della letteratura, ma erano abbastanza eloquenti perché Debby lo mandasse da buoni psichiatri e la sentenza fu brutta. I tarli avevano distrutto il suo spirito. Sette mesi dopo il ritorno a Boston, il fratello ricevette l'orologio Pulsar digitale che gli aveva regalato, uno dei primi, e un'altra poesiola. Lo trovarono imbottito di fenobarbital, morto da giorni. E quando il governo finalmente permise la costruzione del «Muro» della memoria, Bob sottopose il nome del fratello, rifiutato. I suicidi da depressione post bellica sono migliaia, risposero dal Pentagono, come sono già varie decine, almeno 30, i militari suicidi in Iraq. Brutta cosa per il morale della truppa. Vent'anni di ipocrisia, fino a quando una commissione ha finalmente ammesso che quel suicidio era una diretta conseguenza della guerra. Le 11 lettere sono state incise dagli scalpellini e domani saranno ufficialmente scoperte, in tempo per il Memorial Day, il giorno delle Rimembranze, lunedì prossimo. Tenente E. Alan Brudno, consumato dalle termiti della tortura.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …