Vittorio Zucconi: Dalla parte dell'America

01 Giugno 2004
C'è una formula standard, quasi la giaculatoria di un esorcista, che il presidente Bush ripete ogni volta che esce (raramente) dal guscio americano per infilarsi nelle catacombe delle sue visite fortificate e deve confrontare, a distanza di sicurezza, manifestazioni di protesta: "Sono lieto di trovarmi in una nazione dove alla gente è possibile esprimere liberamente le opinioni". Lo disse anche a Londra, sbarcando nel novembre scorso, mentre la sua effige veniva bruciata in Trafalgar Square. Bravo George. Frase sacrosanta che anche noi Italiani dovremmo ricordare al suo arrivo a Roma. Manifestare civilmente, magari rumorosamente, mai violentemente come vorrebbero i provocatori mascherati che, forse senza neppure capirlo, lavorano "per il Re di Prussia", il proprio dissenso contro il capo della repubblica americana in carica non soltanto è perfettamente legittimo e costituzionale anche in Italia. E' il modo più incontestabile per confermare che il sacrificio dei GI's', dei soldati caduti al passo di Kasserine, a Salerno, ad Anzio, a Nettuno, a Cassino, a Omaha Beach, non è stato, come dice il solito aggettivo della retorica ufficiale, "vano". Protestare liberamente e non violentemente contro un presidente americano, chiunque sia, è la forma più sincera e autentica di essere nei fatti filo americani, come ci dice lo stesso Bush. Significa stare dalla parte di quelle libertà che 60 anni or sono furono riconquistate per noi, e con noi, in Europa, prima fra tutte la libertà di non essere d'accordo e di dirlo pubblicamente. I caduti di Normandia e di Anzio sono morti, come gli ormai quasi mille uccisi in Iraq, perché i cittadini delle nazioni liberate potessero criticare e dissentire.
Chi vorrà marciare in ordine per le strade o appendere bandiere pacifiste alle finestre e magari anche migliaia di tricolori, per testimoniare il nostro orgoglio nazionale contrapposto all'internazionalismo servile degli aspiranti Neo-Con, i fautori di un nuovo Cominform tradotto a destra, non sarà necessariamente più "giusto" di chi invece ammira Bush e ne sposa in buona fede le decisioni, perché sentirsi dalla parte del Bene, della Giustizia, della Libertà sarebbe cadere nella trappoletta manichea del "chi non è con noi è contro di noi", che è la negazione implicita della libertà. Chi protesterà contro la guerra di George senza trasformare la protesta in una versione borgatara della guerra, avrà ragione certamente, e soltanto, nel desiderio di strappare il "filo americanismo", l'ammirazione e la gratitudine per gli Usa, al rapimento che di questi sentimenti hanno fatto i manipolatori di casa nostra, coloro che hanno agganciato la carretta degli interessi di casa alla carovana americana, spacciando un filo americanismo da ufficio stampa per fedeltà a valori dell'Occidente, che vengono poi disattesi nella pratica quotidiana di governo. Il "valore" massimo del cosiddetto Occidente, il premio stupendo che i caduti americani del 1944 e 45 hanno difeso per loro stessi e restituito a noi, non è il "credere, obbedire, combattere", è il diritto alla critica, al dissenso, all'opposizione ed è possedere gli strumenti legali e civili per manifestarlo. E' libertà dal ricatto morale - premessa di ricatti politici e poi di repressione - di considerare "saddamita" chi si oppose alla guerra, "fascista" chi si oppone al comunismo, "comunista" chi considera demente la tesi della "guerra preventiva", "antisemita" chi osa obbiettare alla politica del governo israeliano, e, nella parola catch all, acchiappa tutto che oggi viene usata come una mazza da baseball sulla testa dei dissidenti, "terrorista", possibilmente "islamico" per chiudere ogni dibattito. I proclami e gli attestati sperticati di assoluta fedeltà sono tributi di satelliti, non prove di appartenza al campo dei popoli liberi. Desolanti processioni di dittatori e di "barbari tiranni" hanno proclamato in passato la loro fedeltà agli Stati Uniti (venendone troppo spesso ricambiati) credendo di ottenere così credenziali di buon governo e di "occidentalità". La adesione al campo Usa non fece di Pinochet, di Somoza, di Fulgencio Batista, governanti democratici, come l'avere rinunciato - sembra - ai programmi di armamenti micidiali non ha trasformato istantaneamente la Libia di Gheddafi in un regime "occidentale". La "gang" del Patto di Varsavia ci ha offerto per quasi mezzo secolo ridicole esibizioni di calorosa adesione e fraterna amicizia, sigillata da disgustosi bacioni sulle labbra scambiati tra Bulgari e Rumeni, Polacchi e Tedeschi, Ungheresi e Russi, avvinghiati in amplessi bavosi. E se, almeno per ora e felicemente, non assisteremo a scambi di baci tra il piccolo B e il grande B, un governo amico ha il diritto di dirsi amico senza proclamarsi zerbino, esattamente come i cittadini che non condividono le scelte del governo, hanno ogni diritto di esprimere il proprio dissenso, nei modi legali e civili che scelgono. Il paradosso soltanto apparente di queste ore, è che la migliore prova di devozione ai principi che hanno costruito l'America sta nel criticarla, se la critica sembra giustificata e se non assume forme intollerabili. Perché non il bacione (metaforico) dei figli del neo Conformismo "coperto e allineato", ma il diritto di dire "non sono d'accordo" è quello che ancora convince tanti di noi a proclamarsi, tappandosi il naso e ormai sempre più spesso chiudendo anche gli occhi, ancora e ostinatamente filo americani.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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