Vittorio Zucconi: Il pacco dono americano

03 Giugno 2004
Da ospite educato, non arriverà a mani vuote George Bush all'incontro con l’Europa che conta e con quella che finge di contare. In Francia, in Italia e poi al vertice degli Otto in Georgia, porterà il pacco dono del nuovo governo provvisiorio iracheno, che gli permetterà di vantare progressi verso la democrazia con l'imprimatur dell'Onu e salvare le incerte fortune elettorali dei governi satellite. Dare una "faccia irachena" e una parvenza di legittimità Onu all'occupazione, era il risultato improrogabile che Bush doveva ottenere in fretta per riagganciare i governi dissidenti, confortare i governi satelliti nervosi e proteggere, soprattutto, la propria vacillante popolarità interna. Sforare il calendario del viaggio a Roma, a Parigi, al G8, e delle elezioni europee, senza avere creato la facciata di un progresso verso la normalizzazione dell'Iraq avrebbe esposto gli Usa e i governi accodati a Washington all'insostenibile realtà di una guerra che continua, senza risultati positivi da usare come contrappeso. Quella di ieri è stata quella giornata di sole che Bush attendeva dal lontano dicembre, da quando il rudere di Saddam fu riesumato dal tombino. E, proprio in un giorno di perfetto sole primaverile washingtoniano, il presidente americano ha potuto esibirsi in una conferenza stampa disinvolta, come non gli accadeva da mesi. Aveva finalmente buone notizie da comunicare e discutere, anziché essere costretto a inseguire quelle cattive, e mentre tutti gli uomini e le donne della sua amministrazione, da Colin Powell a Condoleezza Rice, sciamavano sugli schermi tv per annunciare la buona novella, lui scherzava rilassato e sicuro con giornalisti colti completamente di sorpresa dalla sua disponibilità. "Che bel vestito bianco, Bob", diceva a uno, "si vede che è tornata tua moglie", "Non ci provare a farmi due domande, Ted, non fare il furbo". Tanta felicità e tanta loquacità sono perfettamente comprensibili, in un capo del governo che ancora poche ore prima, nel mesto lunedì delle Rimembranze, era stato costretto a spiegare a una nazione sempre più scettica che anche gli 814 caduti in Iraq, e i 3500 mutilati, non erano stati sacrificati su un altare di avventure ideologiche. Il nuovo governo "interinale" iracheno è infatti quello spendibile cocktail di nazionalismo, di genealogie tribali e di mansuetudine pro americana che Bush può vendere come un successo per tutti. "Un primo passo", secondo la formula classica, verso "il risultato finale che conta", la creazione d'un simulacro di democrazia irachena che, non potendo essere comunque peggiore della dittatura saddamita, possa reggere almeno per cinque mesi, fino alle elezioni, non a quelle irachene in dicembre, ma a quelle americane in novembre. Ma confezionare il "pacco dono" che il 43esimo presidente porterà a Roma a Parigi e al G8 poco prima della scadenza del tempo massimo, ha comportato una serie di rinunce e di contaminazioni alla "purezza ideologica" d'una missione che si era voluta vendere al mondo proprio come un test assoluto di "chiarezza morale", senza concessioni al relativismo. Come da mesi ormai lamentano e denunciano i teorici neo radicali della "democrazia da esportare" che avevano convinto Bush alla guerra preventiva, questa amministrazione è stata costretta ad arretrare sulla retroguardia di ciò che il presidente chiama "a modicum of democracy", un minimo di democrazia, qualcosa di presentabile e di spendibile, appunto come questa squadra di ministri. Ha dovuto non soltanto accettare, ma addirittura esaltare il ruolo dell'Onu, vantandosi di avere subito chiamato Kofi Annan, ieri, per congratularsi con lui e per ringraziarlo. Per quattro volte ha citato il nome di Brahimi, il vice di Annan, come l'autore della formazione di governo (notizia che pare falsa, avendo l'algerino subito più che indicato le scelte), mentre le promesse tronfie di ripulire Falluja e di catturare Moqtada al-Sadr sono state dimenticate, in favore di un cauto modus vivendi. Il successo che ieri ha tanto gasato Bush e che i suoi discepoli europei plaudono sospirando sollevati, è tale soltanto perché il presidente "duro o puro" di 14 mesi or sono è tornato a essere il prudente pragmatista e relativista della tradizione americana che si risveglia, quando le ambizioni idealistiche (e ideologiche) urtano contro la realtà. Nulla di quanto è avvenuto dopo la proclamazione della "missione compiuta" è andato secondo i piani degli ideologi radicali e dunque l'Amministrazione ha dovuto ripiegare su quella formula di democracy light, di democrazia leggera, sostenuta dai disprezzati pragmatisti del dipartimento di Stato, della Cia e dei kissingeriani come il governatore Paul Bremer. Il governo provvisorio iracheno è soltanto quanto basta a Bush per sostenere che "l'Iraq fa progressi", per puntellare gli incerti e per togliere ai recalcitranti l'alibi per non dare l'avallo dell'Onu. Con un timbro che l'Onu ora difficilmente potrà rifiutare, se crederà al ruolo centrale del duo Annan-Brahimi, e con un sembiante di normale amministrazione a Bagdad pur tra le bombe e le stragi che continueranno, Bush può ottenere quello che davvero vuole e del quale i governi satellite europei hanno altrettanto bisogno per puntellare il proprio futuro politico agganciato a lui. Più che il trionfo futuro della democrazia jeffersoniana a Bagdad, la vittoria elettorale per sé e la sopravvivenza per i governanti europei che sono rimasti impigliati nelle sue avventure.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …