Vittorio Zucconi: L'Impero del male. La morte di Ronald Reagan

07 Giugno 2004
Ricordare in morte chi non ricordava più nulla in vita è una di quelle ironie del copione umano che gli avrebbero strappato un sorrisetto obliquo, sulla faccia di vecchissimo e disarmante adolescente. Si sarebbe divertito, "Ronnie", o "Dutch", l'olandese, come chiamavano da ragazzo Ronald Reagan, a leggere ancora da vivo le biografie, i coccodrilli. Si sarebbe divertito con i rimpianti funerei anche di chi lo aveva esecrato, se da dieci anni non avesse vagato nella valle dei morti viventi, dell'Alzheimer. E invece è morto ieri senza sapere, senza riconoscere la moglie e i figli convocati nella stupenda villa di St. Cloud Street tra palme, azalee, magnolie e rododendri, a Bel Air, al numero civico "666" che i Reagan avevano fatto cambiare inorriditi, perché il "666" è il numero di Satana e chi nasce attore muore attore, superstizioso e ombroso. Notano gli storici della presidenza americana che nessun altro era stato longevo come "RR", mancato all'età quasi biblica di 93 anni. Gli ultimi dieci anni della sua esistenza, da quando nel 1994 annunciò il suo Alzheimer con l'ammirevole impudicizia di una nazione dove sulla salute dei simboli politici non si può mistificare né speculare, sono stati soltanto un lungo addio dal palcoscenico che tanto amava. Ma la sua agonia nel silenzio e dunque nel mistero, è stato il finale più coerente con una vita ancora tanto misteriosa quanto importante. Perché l'uomo che cambiò il corso della storia americana e il crollo di quel Muro che aveva invocato, è stato venerato e maledetto, amato con un'intensità quasi carnale e altrettanto sensualmente detestato da chi lo giudicava un pericoloso burattino esaltato dalla propria autorità, non era mai completamente uscito dall'ambiguità tra "personaggio" e "persona". Un'ambiguità sulla quale lui stesso aveva giocato, con quell'autoironia che sempre segnala intelligenza. Il titolo della sua prima autobiografia, che sembra anticipare sia l'ambivalenza del giudizio su di lui che lo smarrimento degli ultimi anni di vita, è infatti: "Where is the rest of me?", dov'è il resto di me? Ronald Reagan era un bambinone, letteralmente. Aveva fatto molto soffrire la religiosissima madre, nascendo in una cittadina dell'Illinois, Tampico, al peso considerevole di cinque chili, presagio della sua statura da adulto, ben oltre il metro e novanta. Il suo cursus di modestissimi honorum fu quello di un figlio qualsiasi del Mid-West provinciale negli anni della Grande Depressione, con una madre devota e un padre alcolizzato, senza supporti tribali come i Roosevelt, i Kennedy o i Bush, senza gli eccellenti pedigree accademici di un Clinton e senza il prestigio marziale di un Eisenhower. Ma con un talento che ancora i tempi non riconoscevano in tutte la sua potenza, la capacità comunicativa, il "carisma" si sarebbe detto più tardi, che lo facevano apparire sincero anche quando mentiva. In una sua celeberrima frase, lo aveva teorizzato lui stesso, spiegando a un giovane deputato repubblicano neo eletto, con la testa lievemente ripiegata e il suo sorriso vago: "Figliolo, in politica la sincerità è tutto, se riesci a fingere di essere sincero, ce la farai sempre". Finzione e sincerità, recitazione e convinzione finirono per intrecciarsi in lui inestricabilmente. L'uomo divenne il personaggio, e il personaggio l'uomo, facendo impazzire chi tentò per 90 anni di separare le due facce della stessa personalità. Reagan era sinceramente convinto di avere fatto il radiocronista di baseball, da giovane, quando in realtà leggeva i flash di agenzia con i punteggi e inventava le azioni, accompagnando le parole con i rumori registrati della folla e il "pok" secco della mazza contro la pallina. S'inalberava quando gli avversari gli rimproveravano di avere "marinato" la guerra e ricordava con orgoglio di avere raggiunto il grado di capitano nell'esercito, trascurando di aggiungere che il reparto nel quale aveva combattuto senza sparare un colpo era il Motion Picture Battalion, il battaglione di gente del cinema schierati a Hollywood per produrre film di propaganda. Ma di nuovo la self deprecation, la capacità di non prendersi sul serio, gli faceva perdonare tutto. Fu democratico populista, rooseveltiano, prima di convertirsi alla destra repubblicana maccartista, quando fu scelto come presidente del sindacato attori. Carte segrete dell'Fbi riesumate recentemente lo raccontano come un delatore, che additava colleghi nel mondo del cinema al cacciatore di rossi, al senatore McCarhty, ma di nuovo l'episodio tenero interviene per ammorbidire un periodo duro e vergognoso della sua vita. Proprio come presidente del sindacato intervenne per salvare una giovane attrice accusata di essere "comunista" e prossima a perdere il lavoro. Si chiamava Nancy Davis e lui garantì per lei, forse con qualche "conflitto di interessi" privati, perché Nancy divenne poco dopo la sua seconda moglie e futura First Lady, in una storia d'amore indiscussa e tenace, destinata a durare più di quarant'anni e trasformare la mediocre attricetta nella più feroce delle sue infermiere e della custodi del mito Reagan, davvero fino a quando morte non li ha separati. Era lei, quando ancora l'Alzheimer lasciava qualche spiraglio di luce nella nebbia, a ordinare agli agenti del servizio segreto di sparpagliare attorno alla piscina sacchi di foglie secche perché il marito le rastrellasse la sera. La beatificazione politica, che la vecchia destra repubblicana prodotta dal senatore Goldwater e rimasta poi orfana di veri leader fino a lui, è, come tutte le agiografie, eccessiva e sospetta, fino all'apoteosi dell'Uomo che Vinse la Guerra fredda praticamente da solo, dimenticando lo stato di avanzata putrefazione dell'"Impero del Male" (suo celebre slogan) e la spallata decisiva e involontaria che Mikhail Gorbaciov diede al cadavere sovietico. Negli ultimi anni, amici e fan hanno cercato di riscoprire un Reagan letterario e letterato, raccogliendo le lettere, gli scritti inediti, i billets doux, le note amorose a Nancy per cancellare anche l'ultimo biasimo sulla sua immagine, quella di non essere un uomo colto o raffinato. Il problema centrale di Dutch Reagan, strappato sia alla presunzione dell'intelligentsia di sinistra che vede in ogni leader di destra uno zotico manovrato da poteri occulti, sia al fideismo ideologico della destra che cerca in Reagan la fonte della legittimità di Bush il Giovane, è in realtà lo stesso posto da ogni presidente americano, nella sua storia: "Ronnie" fu l'agente del cambiamento dei depressi umori americani all'inizio degli anni 80 o ne fu il prodotto e la semplice maschera? Il sole tornò a splendere sugli Stati Uniti, secondo il suo celebre slogan ("è di nuovo mattino in America") perché lui lo fece sorgere o Reagan fu soltanto il classico mago della pioggia che si vanta di avere fatto piovere perché ha danzato fino a quando è piovuto? E la risposta, come sempre nella storia americana, è oziosa. Un leader democratico e il suo tempo, negli Stati Uniti, sempre coincidono e si condizionano reciprocamente. Il Reagan che sognava di "bombardare l' impero del male", divenne il Reagan che propose a Gorbaciov di azzerare gli arsenali nucleari. Il Reagan che giurava implacabile fermezza verso i terroristi, fu quello che autorizzò segretamente trattative con gli iraniani di Khomeini, vendendo loro armi sofisticate. Se la sua fu "rivoluzione", come dicevano i fan rimpiangendolo inconsolabili, fu "rivoluzione culturale", partita da una California che lo aveva eletto governatore e si ribellò alla tirannide del "tassa e spendi" ereditata dal New Deal di Roosevelt. Credette nel mito del "meno tasse più introiti fiscali" che spalancò uno sbilancio nei conti federali che il suo successore, Bush il Vecchio e poi Clinton, dovettero colmare in fretta, pagando il prezzo politico. Ma sulla sua "incoscienza fiscale", sulla sua apparente leggerezza e sulle sue singolari manie (dopo l'attentato non faceva più nulla senza consultare le astrologhe) volava con grazia, con eleganza, con la grande fortuna che lo fece sopravvivere al proiettile di Hinckley, a tumori alla prostata, al naso e all'intestino, sempre sorridendo, come gli sibilava Nancy al suo fianco tirandolo per il fondo della giacca, "smile, Ronnie, smile". Sarà, e non solo da chi aveva votato per lui, rimpianto.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …