Michele Serra: Il caso di Livorno e l'assenza di divieti

09 Giugno 2004
L'estremismo, si dice, è fisiologico. È un margine inevitabile laddove esistano maggioranze spesso grosse, spesso grasse, che occupano tutto intero l'arco politico e sociale, dettando le regole della vita pubblica e spesso anche di quella privata. Ma al margine vivono degnamente gli artisti, e poco altro. E quando una cinquantina di ragazzi livornesi, affiliati a una curva di stadio che stalineggia per darsi un tono, devastano una sede elettorale della destra, il margine diventa così centrale da porre una vecchia e civile città di sinistra, e non solo lei, di fronte a un antico e affilato problema di coscienza. Reprimere o capire. Di getto, viene da dire che le due cose non si escludono affatto. E che magari reprimere, in uno scorcio d'epoca sgovernato come questo (sgovernato nelle famiglie, nelle scuole, mica solo nei palazzi), è diventato una delle vie per capire: provando a capire meglio, prima di tutto, noi stessi e le nostre residue convinzioni. E per quella via, farci capire meglio anche dai figli. Perché il punto (uno dei punti) dell'estremismo, oggi come trent'anni fa e come forse sempre, è che mette in scena come poche altre cose il rapporto tra adulti e giovani, tra genitori e figli. I famosi "no", che costituivano lo steccato rigido entro il quale crescemmo, oggi sono polvere. La consistente stupidità di alcuni di quei divieti ci rese, per reazione, intelligenti, almeno così riteniamo. Ma stupidissimo, invece, è ritenere che nel vuoto dei divieti rispetto e dignità crescano spontanei. La cafonaggine dei nostri ragazzi è quasi sempre un maldestro rodaggio della personalità. Ma poiché resta cafonaggine, proterva e ingiusta anche nei dettagli minimi (restare stravaccati sull'autobus di fronte a un anziano o a una donna gravida è un gesto odioso, non una leggerezza) diventa un eccellente humus dell'arroganza, della prepotenza, della violenza. Per questo ci permettiamo di dire che quando il presidente del Livorno indossa la maglietta degli ultras diffidati dalla polizia, non è un buon padre. Come molti di noi, dev'essere afflitto dalla coscienza dell'ipocrisia, del compromesso, dell'imperfezione nel quale gli adulti sopravvivono e qualche volta vivono. Perché questo è il problema: a differenza dei padri dei padri, che a cavalcioni del loro Verbo viaggiavano benissimo, noi adulti contemporanei ci sentiamo incerti portatori di valori sbiaditi, e poiché con il bastone in mano ci sentiremmo ridicoli, cerchiamo di farci notare, e benvolere, per eccesso di carote. Non sapendo, o facendo finta di non sapere, che la benevolenza dei figli non è tra le facilities connesse al ruolo di genitore: arriva, quando arriva, molto tardi, quando i figli saranno adulti e genitori e a loro volta. E nel frattempo, si sappia che il destino di chi educa è anche farsi detestare. Invece, una specie molto malintesa di intelligenza (l'intelligenza della nostra crisi) ci suggerisce di defalcare il nostro ruolo, da educatori ad amiconi, da responsabili a confidenti. Questo non va, questo in politica diventa diserzione, e nelle case diventa viltà. Perché c'è almeno un filo, nello sdrucito tessuto di ciò che pensiamo valga la pena pensare, che regge tranquillamente l'impatto con la più estrema delle utopie, con la più ribelle delle esperienze esistenziali. È l'odio per la prepotenza, lo schifo per la sopraffazione, sentimenti poi non tanto mutati rispetto allo scatto rivoluzionario della nostra lontana giovinezza. Il branco che sfascia e minaccia è ripugnante, è squadraccia, è soldataglia, è la volgarità infinita del machismo muscolare da curva, è miseria culturale, e se all'Ardenza si capisce meglio detta così: è l'essenza del fascismo. Le squadracce fanno schifo. Fanno schifo anche se sono comuniste, forse anche di più. Fanno schifo in gruppo e fanno schifo singolarmente, quando gli individui tornano tremuli e storditi alla loro miserabile paura di pensare e agire in proprio. E se questo schifo deve tradursi in un poliziotto che arresta e in un giudice che giudica, dobbiamo avere almeno il coraggio umano, prima che politico, di dire che sì, condividiamo la repressione della violenza, e la condividiamo perché abbiamo delle idee, dio santo, non solo l'argenteria da salvare. Di padri cazzuti che dicono "no" per il piacere infinito di dirlo non ne abbiamo più bisogno, grazie. Ma i vicepadri esitanti, i padri travicelli che si sentono indegni di giudicare male ciò che è male, vile ciò che è vile, violento ciò che è violento, è ciò che non vorremmo e non dovremmo essere, perché in sostituzione di un ordine ingiusto sarebbe il colmo imporre un disordine ingiusto.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …