Vittorio Zucconi: Fuori dall'oratorio c'è la dura realtà

16 Giugno 2004
Trattandosi di giocatori giovanissimi, di valorosi dilettanti inesperti trasportati di peso dal campo dell'Oratorio di Maria Ausiliatrice a Bovolone dove giocavano fino a ieri sera, direttamente al campionato Europeo, il loro stupore è comprensibile. Dopotutto anche il colonnello Custer, che pure era un alto ufficiale della US Cavalry, rimase un po' stupito davanti alla scoperta che non erano i suoi cento cavalleggeri ad avere circondato cinquemila Sioux, ma era il contrario e ci lasciò lo scalpo.
Non si poteva pretendere che ragazzini esordienti come Del Piero, Totti, Vieri, Panucci, Zanetti, sapessero che cos'è un Europeo di calcio. Loro sono convinti che il football sia quel gioco che consiste nel firmare un contratto, giurare fedeltà alla nuova squadra, baciare la maglia, andare a cena con un plotone di telecicciole e di leccapiedi, cucirsi un telefonino all'orecchio e prepararsi a firmarne uno nuovo.
Fortunatamente, i civilissimi e ben rasati danesi non erano interessati allo scalpo di Totti, acconciato da Bobbe Marli della Garbatella con treccine "rasta", alla capigliatura a foggia di "ananas" di Camoranesi e men che meno alla rapata da Marine vesuviano con chiazze alopeciche di Cannavaro. Dunque i nostri ragazzi (come è obbligatorio chiamarli sui giornali fino al compimento del 40esimo anno) hanno almeno riportato a casa la cotenna, oltre che un punto e ora sanno che cosa sia un campionato europeo di calcio.
Hanno visto che, quando si gioca al pallone con i bambini grandi e non più nell'oratorio parrocchiale della Lega calcio con monsignor Adriano e don Luciano a fare da arbitri, a nessuno gliene frega nulla del nome che porti, non agli arbitri, non ai tifosi, non ai telecronisti stranieri (che hanno massacrato senza pietà il vetro da gabinetto dei Celestini) e soprattutto non agli avversari , che corrono, passano, tirano in porta e ti portano via la palla, i gran figli d'un cane. Ti puoi chiamare Totti o Vieri, ma se non azzecchi un passaggio, se cincischi un controllo, se non corri a smarcarti, se non fai pressing, se butti il pallone in avanti alla cieca come se si trattasse della finale olimpica del disco dove conta soltanto la distanza e non la precisione, quelli ti mancano di rispetto e ti impallinano. Abituati come sono a essere coccolati da giornali e tv, a essere protetti da dirigenti e sensali che minacciano di espellere i cronisti dagli allenamenti e dagli stadi se osano criticarli, come fa regolarmente il dottor Galliani a Milanello, non capiscono come mai gli "indiani" non abbiano alcun timore reverenziale e li trafiggano impietosamente.
L'Europeo, come il Mondiale, non è ‟Controcampo”, la ‟Domenica Sportiva”, nè il circolo dei propri tifosi. La bellezza del calcio, quando è giocato in questi tornei nei quali non ci sono le "piccole società" materasso messe a far mucchio nella Lega come le Sauber e le Minardi in Formula Uno, è che ti devi davvero guadagnare la michetta (o pagnotta o ciriola). I limiti dell'ormai patetico Del Piero sul quale neppure noi ci sentiamo di infierire perché non è colpa sua se lo portano in Nazionale, dell'immaturo Cassano, del fumoso Camoranesi, dello sfiancato Vieri, dello stordito Panucci, o del sempre inguardabile centrocampo (fatto salvo quel formidabile Gattuso che i tifosi sfottono perché neppure al buio nessuno lo scambierebbe mai per Leonardo di Caprio), sono messi in mostra con ferocia. E non dal Brasile di Vavà, Didi e Pelè, ma dalla Danimarca di Laursen, di Tomasson e del vecchio scarpone Helveg.
La "dura realtà" della quale parla il povero commissario Basettoni è che, fuori dall'oratorio del calcio italiano, nessuno ha scrupoli per i grandi raccomandati che si credono campioni soltanto perché i loro fans, pubblicisti e ruffiani assortiti li incensano e glielo ripetono. Non ci sono timori riverenziali nè sudditanze nè conflitti di interessi da massaggiare con dolcezza come il filetto del vitello di Kobe per non perdere la cadrega in tv, il talk show o la direzione di un giornale. E i palloni e palloncini del nostro football si sgonfiano miseramente.
In Portogallo, come hanno constatato anche gli sbruffoni Portoghesi e i polli di Sua Maestà Britannica, si deve correre per 95 minuti, smarcarsi, muoversi, tirare, e metterla dentro quando se ne ha l'occasione da pochi passi, tagliando fuori il portiere, e non mettendo la palla alla sua portata come hanno fatto Beckham e Del Piero. I piccoli dei del nostro calcio mercato devono scendere dal piedistallo di aria fritta sul quale i media italiani li installano, uscire dalla scatola del Subbuteo, pedalare e ricordare il celebre motto di Nereo Rocco, che anche il più grande campione senza la palla tra i piedi "xe soltanto un mona".

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia