Vittorio Zucconi: La guerra globale dei terroristi

21 Giugno 2004
In una storia che ormai non ha più aggettivi che possano raccontare quello che viviamo e vediamo, un altro essere umano colpevole soltanto di portare un passaporto americano e di lavorare come meccanico di elicotteri Apache viene sgozzato in Arabia Saudita e la sua macellazione è esibita come un trofeo di gloria nelle fogne di Internet, dalle quali certamente sarà ripescata e ostentata, per attizzare il circolo vizioso dell'odio globale, come gli assassini vogliono. Paul Johnson, tecnico della ‟Lokheed-Martin”, aveva 49 anni, un cappello da cowboy e una moglie thailandese, Noom, che da una tv araba aveva chiesto clemenza ai rapitori semplicemente perché, aveva detto, "non aveva nessun altro al mondo che lui, Paul". Come se questo genere di argomenti umani, semplici, morbidamente femminili potessero fermare la lama di chi si è posto fuori dal cerchio dell'umanità. I macellai sono stati di parola. Lo avevano ripreso con la testa fasciata in bende e cerotti, come in un parodia sinistra di una medicazione preventiva, e avevano annunciato che lo avrebbero decapitato entro quattro giorni se non fossero stati scarcerati alcuni prigionieri di Al Qaeda, cosa che né il governo Saudita, né l'inesistente pseudogoverno di Bagdad e la Casa Bianca ovviamente potevano fare. La condanna a morte di Paul Johnson era dunque scritta nell'atto del rapimento e tutto il resto, come già nello sgozzamento di Nick Berg o nell'uccisione del giornalista Danny Pearl in Pakistan, è stata soltanto un altro episodio di una spaventosa pantomima recitata da attori che già hanno deciso il finale, l'ammazzamento ritualistico e deliberatamente osceno della vittima. Il messaggio che Al Qaeda ha voluto mandare ancora una volta all'America, se di Al Qaeda si tratta perché tutto, assolutamente tutto in questa guerra di ombre, di maschere e di menzogne va sempre letto con estrema diffidenza, è dunque la risposta speculare e simmetrica alla guerra scatenata con l'attacco alle Torri Gemelle. La sensazione che si prova, oltre l'orrore, di fronte a quanto sta accadendo dall'11 settembre, è che gli ingranaggi di questa "arancia meccanica" globale stiano scattando con prevedibile regolarità e tutte le parti facciano quello che da loro è atteso. Spazzati via facilmente gli attori secondari, come i Taliban in Afghanistan e il regime ormai vuoto di Saddam, l'America è di fronte a quello che è sempre stato il suo - e il nostro - nemico reale, questo regno metastatico e più formidabile che mai definito, in mancanza di cognizioni più precise, il "terrorismo islamico globale". Proprio perché ormai mancano le parole per descrivere gli orrori che esso provoca, così come mancano le immagini per descrivere le sofferenze degli iracheni presi nella morsa di questa che è la vera guerra, si deve guardare oltre la pietà raccapricciante di quanto ci viene servito e tentare di capire che il nemico, per diabolico e disumano che sia, segue un suo progetto razionale che è, come Bush dovrebbe decidersi a dire abbandonando la logora retorica sul mondo più sicuro senza Saddam, quello di compiere un suo "cambio di regime". In Arabia Saudita. In quel regno del petrolio senza neppure la pretesa di quella democrazia che ora i cannoni dovrebbero esportare in Afghanistan e in Iraq, che Washington puntella, protegge, difende, giustifica perché è il polmone nero delle nostre economie. I macellai del contractor civile al servizio della ‟Us Army”, Paul Johnson, come di Berg, come del cuoco italiano Amato, come degli impiegati uccisi negli attacchi alle residenze di tecnici stranieri in Arabia Saudita, sanno che non possono sconfiggere gli Stati Uniti, che non possono costringere Bush a ritirarsi dall'Iraq perché per Bush sarebbe il suicidio politico. Come gli ideologi della destra bellicista americana volevano stroncare il terrorismo tagliando le gambe ai regimi complici, nel segno del "chi non è con noi è contro di noi", così questi macellai vogliono gambizzare l'Occidente stroncando i regimi amici, minando i pilastri petroliferi della ricchezza e quindi della potenza nemica. Il sangue che fanno sgorgare dalle arterie recise delle loro disgraziate vittime sono la evidente, eloquente metafora di quel "sangue nero" che essi vogliono far scorrere, per dissanguarci. Sono di parola, perché Bush si vanta di "essere di parola". Non potendo affrontare a viso aperto, in una battaglia campale, le forze di quello che a loro appare come il Male, combattono la loro guerra creando tante piccole Apocalissi reali e mediatiche, fatte di autobombe contro chiunque capiti nel raggio di azione, di assalti a quartieri residenziali impossibili da difendere, torturano e uccidono ostaggi filmandone l'agonia, perché vogliono che gli americani la vedano, perché ancora più risoluta si faccia la volontà di impiegare forze convenzionali, perché il nostro raccapriccio è il poster di reclutamento per altri assassini. L'arancia meccanica, costruita per stritolare chiunque ci metta dentro il dito o la testa, funziona e punta al doppio obbiettivo di paralizzare il nuovo Iraq e di distruggere la monarchia Saudita, costringendo tutti gli stranieri, i tecnici, i contractors, i banchieri ad abbandonare la penisola al suo destino di sollevazione interna. L'America "non si farà intimidire", come ha detto ieri sera Bush, dicendo con rabbia che "non c'è nessun tipo di giustificazione per questo omicidio, lo hanno ucciso a sangue freddo". Neppure un cambio di presidenza, in novembre, porterebbe a un ritiro incondizionato, come Kerry ha già chiarito e anche il raccapriccio, come vuole la dinamica del terrorismo, tende a diventare assuefazione, nella ripetitività dell'orrore. Ma non è al signora Noom che i beccai del povero Johnson pensavano, né alla prevedibile condanna di Bush e alla promessa di non mollare. È alla lenta, progressiva decapitazione delle economie occidentali, alimentate dal petrolio, che essi puntano. Partendo dal regno con i piedi di sabbia, l'Arabia Saudita.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …