Michele Serra: Delitto di Cogne. Il lungo processo sugli schermi tv

20 Luglio 2004
Dal delitto di Cogne sono passati solo due anni e mezzo. Ma sembrano cento, tale e tanto è stato lo sfruttamento mediatico - soprattutto televisivo - di un così delicato e tenebroso caso. La sentenza dei giudici appare quasi un codicillo (ahimé, necessariamente stringato e severo) del processo mediatico, che è stato invece smodato e spesso ciarliero, celebrato in talk show che non potevano che essere parodie dozzinali di quella tragedia greca che è l'infanticidio, specie con la madre sotto accusa.
La vicenda della signora Franzoni e della sua famiglia è diventata gossip nero, segnato da una spaventosa impudicizia e dal piacere quasi sportivo di discutere su indizi, moventi, investigazioni, come in un gigantesco gioco di società. Il tetto di pietra della villetta di Cogne, in onda ogni sera su tutti i telegiornali per lunghi mesi, anche quando non c'era nulla di nuovo da dire o da insinuare, era diventato una specie di logo televisivo, la sigla di uno dei tanti serial di intrattenimento. Lo si fissava, alla fine, con distaccato cinismo, tanto saturo era lo sguardo, e tanto invadente era diventata la morbosità pubblica attorno a quel caso.
L'irruzione nel processo dell'avvocato Taormina, irrefrenabile protagonista dei casi giudiziari illuminati dai riflettori, aveva poi ulteriormente trasfigurato la vicenda da dramma umano a pittoresco parapiglia giuridico, con inquirenti che finivano sotto accusa, indagini sulle indagini, annuncio di clamorosi colpi di scena (Taormina ebbe anche a dichiarare di conoscere il nome dell'assassino, come in un telefilm di quelli molto ma molto popolari).
La condanna della signora Franzoni avrà sicuramente la sua legittima coda di dolore privato, e di commenti pubblici. Quelli di qualche spessore giudiziario, di chi conosce le carte e sa di iter processuali, sono i soli legittimi. Degli altri, anche se sappiamo di non poter evitarli, non avvertiamo alcuna necessità, dopo il profluvio di approfondimenti psicologici e di disamine sociali un tanto al chilo che sono fioriti, in questi due anni e mezzo, attorno al caso Franzoni, spesso in misura indirettamente proporzionale allo scarno spicchio di verità che si poteva intravedere: meno se ne sapeva, più l'accanimento della chiacchiera si faceva intenso e sovente spietato.
Dal caso Franzoni, qualunque sia l'opinione in termini di colpevolezza, abbiamo imparato la nostra disperata incapacità, in quanto società mediatica, di fare silenzio, di sospendere la chiacchiera, di prosciugare l'emozione in favore di una decente, rispettosa assenza di risposte a domande troppo difficili. Dividersi in colpevolisti e innocentisti, a volte, è solo un gioco facile e becero, specie quando la gravità del delitto coinvolge le viscere di una società.
Le interviste televisive della signora Franzoni restano, almeno per quanto riguarda il mio giudizio, una delle più fulminanti prove a carico della televisione, del suo micidiale sovrappiù sentimentale, della sua invadenza, della sua incapacità congenita di aiutarci a ragionare in silenzio e della sua necessità, per contrappasso, di farci emozionare rumorosamente e continuamente.
Il delitto, ahimé, è un genere anche quando non è fiction. Attira, interessa, e a volte è anche parecchio rappresentativo di una società e della sua crisi. Ma quando non c'è misura, in questa inevitabile attrazione dell'opinione pubblica per la cronaca nera, il delitto diventa mercato, un mercato indecente nel quale si vendono vittime, colpevoli, testimoni, inquirenti come un clamoroso cast. Anna Maria Franzoni era diventata, suo malgrado, una star, e c'è da chiedersi se la sentenza di condanna la aiuterà, e ci aiuterà, a dimenticare e a celebrare davvero il lutto, oppure se si profilano nuove puntate, magari carcerarie, della sua tragedia e della nostra farsa.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …