Gabriele Romagnoli: Olimpiadi - Tutti contro il Dream Team, e i giganti scoprono la paura

23 Agosto 2004
Il Dream Team (1992-2000) era come quel lottatore venuto da Roma che si presentò a Olimpia e, solo spogliandosi, mise in fuga gli avversari, vincendo senza combattere. Al suo posto, nel 2004, appena arrivato e imbarcato sotto stretta sorveglianza sulla Queen Mary 2, c' è un Dreamers Team, dodici spaventati guerrieri che sono la vivente metafora dell' America contemporanea: un' entità abituata al dominio che si scopre vulnerabile, avverte la dilagante ostilità e l' universale desiderio di vedere abbattuto l' impero. La notizia è: stavolta è possibile, le Torri, come dimostrato, possono crollare. L' antiamericanismo in forma olimpica ha un bersaglio preciso: la squadra di pallacanestro. Per ferire l' America bisogna colpire non un singolo, ma un simbolo, del potere e dell' economia. Da quando manda ai Giochi gli strapagati professionisti dell' Nba, la selezione di basket rappresenta esattamente questo, una combinazione sportiva di Pentagono e Wall Street, forza + tecnologia + denaro = superiorità (fin qui) indiscussa. I cestisti statunitensi sono ritenuti l' incarnazione vivente dell' arrogante superiorità dei grattacieli di Manhattan o Chicago. Poco importa che i cinesi abbiano "costruito" le loro Patronas Tower con le inarrivabili altezze di Yao Ming e compagni o che l' Nba si sia aperta agli emigranti elargendo fama, ricchezza e insegnamenti a argentini, tedeschi, africani e, perfino, qualche italiano. Agli archivi di questa Olimpiade la voce "Pallacanestro" dovrebbe essere sostituita da quella "Caccia al Dream team". Il presidente della Fiba, il cinese Ching, prevede compiaciuto: «Qualcuno gli strapperà la medaglia d' oro». Principali indiziate: Argentina e Lituania. Avverte l' onnipresente cartellone di uno sponsor: «Niente è impossibile». Ma (ab)battere l' impero? Perché no? Due le ragioni. La prima: la crescita degli avversari. Nel 1996, dopo la vittoria di Atlanta, Scottie Pippen e Charles Barkley stavano seduti a fianco nello spogliatoio, provati, con l' asciugamano sulle spalle. Per tutta la vita non avevano mai concordato neppure sul colore del cielo, eppure annuivano insieme, dicendo: «Stanno arrivando». Alludevano ai "barbari", gli altri Paesi fin lì lontani, quelli che, nel ' 92, soltanto vedendo Michael Jordan togliersi la tuta, si erano squagliati. Non si sbagliavano: la vittoria di Sydney è stata figlia di un torneo minore, di un canestro all' ultimo secondo in semifinale con la Lituania e di una finale senza gloria con la Francia. Due anni fa, ai mondiali di Indianapolis, l' Argentina ha interrotto una serie vincente di 58 partite e aperto la falla che ha affondato la corazzata al sesto posto in classifica. I "barbari" hanno imparato la lezione. Hanno montato le antenne paraboliche sulle loro caverne e ora anche l' ultimo dei loro strateghi sa come gioca Duncan, che cosa bisogna fare per fermare Iverson, quali sono le mosse e contromosse adottate da coach Brown. Hanno infiltrato i loro uomini nel ventre molle di un' America accogliente e distratta che lascia giocare nel proprio cortile ragazzi venuti da lontano e che lontano ritornano, più forti, informati, pericolosi. Hanno arruolato il tempo dalla loro parte, preso tutto quello di cui avevano bisogno, con la pazienza di chi aspetta l' eterno ma pensa che l' eternità sia un giorno: quello in cui finalmente vincerà. Hanno costruito vere squadre, fatte di uomini che hanno imparato a conoscersi, fidarsi, giocare insieme, con umiltà e sacrificio. La Cina sta allevando in batteria i giganti d' oro per Pechino 2008, ma altri si sentono pronti per Atene. Li conforta la seconda ragione che rende possibile la caduta dell' impero: questo non è un Dream Team. Non è l' Invincibile Armata che sarebbe stata se avessero accettato la convocazione le prime scelte. Questo è, significativamente, un esercito di riservisti. L' emblema è Lamar Odom, che camminando per Istanbul dopo le bombe e prima dei tiri da tre, diceva: «La mia famiglia mi ha implorato di non partire, ma io sono un patriota e so che qui stiamo per difendere una causa che va oltre il gioco». Tuttavia, per sicurezza, diserterà, come gli altri, la cerimonia d' apertura. Il profetico Charles Barkley ha lasciato nella segreteria telefonica di un giornalista il seguente messaggio: «Prima di scrivere di questa squadra, confronta la sua esperienza internazionale con quella degli altri». Fatto. Tutti insieme hanno 116 parite. Jose Ortiz, il capitano di Portorico, primo avversario, ne ha, da solo, 150. La media per giocatore è 9,7. Quella dei cinesi 120. Giocano insieme da 35 giorni. I loro avversari più accreditati da sei anni. L' età media è 23,3, come quella delle squadre di college che venivano fino alla mortificante sconfitta in semifinale con l' Urss nell' 88. è possibile che perdano? Sì. Probabile? Time out. Larry Brown è un allenatore per casi estremi. Ha vinto con squadre di college e dell' Nba. Ha schiacciato i Lakers con una formazione di valorosi meccanici di Detroit. Ha litigato con Iverson, ma se l' è portato «perché spieghi agli altri che sono pazzo come sembro». è uno che assembla squadre là dove ci sono uomini sparsi sul parquet. Duncan ha detto: «Dall' inizio siamo cresciuti del mille per cento». Hanno perso male contro l' Italia, certo. Vinto sulla sirena con la Germania. Ma poi, attenzione, ne hanno dati 18 alla Serbia Montenegro che è squadra da podio. E hanno battuto la Turchia in una bolgia che era prova generale dell' ambiente ostile che troveranno qui. Possono solo crescere e lo stanno facendo. Lo sponsor dei cartelloni «Niente è impossibile» ha appeso una nuova serie. Lo slogan, più cauto, è: «L' impossibile è un' opinione».

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …