Paolo Rumiz: La fabbrica dei veri marinai

01 Settembre 2004
Brutto trovarsi senza imbarco, così, senza preavviso. Ti manca il guscio protettivo, il frastuono della terraferma ti stende, ti vengono le allucinazioni. Vedi solo ciabatte, tenute hawayane, bimbi urlanti e telefonini. I bipedi sbucano ovunque, non sono mai stanchi. Le automobili, almeno, ti evitano. Loro no. Sono liquidi. Non ti vedono, ti vengono addosso. Temo che verso Lepanto ne troveremo a legioni, e che uccideranno la leggenda. Così chiedo per telefono all'amico Marco Paolini se esiste un "metodo Zen" per ignorarli. Lui: conosco solo un "metodo Colt". "Coparli". O pensar de coparli. Bang, bang, bang. Fuga via terra verso le pietre antiche di Ossero (accento sulla prima "O", bitte) e va subito meglio. Due taverne, alberi di fico, muretti abbacinanti, vicoli pieni di vento, lavanda, scritte latine. Ossero presidia il varco tra le isole di Cherso e Lussino, e quel varco - minimale - è la porta per il mare interno della Dalmazia. Per questo fu distrutta dai saraceni nel 841. L'Islam premeva già allora su queste terre, lo leggi al museo archeologico, dove sul libro-visite c'è ancora la firma dell'imperatore. Il vecchio Franz Josef. La piazzetta, con le panche in deliziosa frescura, è già Grecia. In posti così ti siedi e mediti. Pensi che a Treviso oggi segano le panchine per impedire agli stranieri di sedersi, e che magari ad Atene la democrazia nacque proprio da una panchina, un luogo all'ombra dove dialogare. Scopri che la chiesa di fronte ha un soffitto identico alla carena di un veliero, e allora il nesso tra le parole "Nave" e "Navata" diventa improvvisamente ovvio.
Baia solitaria con locanda, un posto raggiungibile solo a piedi, per un sentiero nel rosmarino. Vento teso da windsurf, mare increspato piatto, acqua così pulita e piena di luce che le pance dei gabbiani, sorvolandola, si illuminano di verde tormalina. Nino Maier, il gestore del paradiso, mi offre malvasia sotto un pergolato, racconta che ha ereditato il posto dal nonno, il grande vecchio Miroslav, marinaio dell'Austria-Ungheria. Mostra la sua foto, e quella, originale, della flotta imperiale in navigazione nel 1914. Il vecchio era stato affondato tre volte, e dopo tre affondamenti qualsiasi uomo normale avrebbe dovuto odiare il mare. Non lui. Quando andò in pensione, batté la costa fino al Montenegro per scegliersi un buen retiro. Trovò la baia e la comprò. "Fu lui a portarmi qui ogni estate. Lui a farmi amare Lussino, a farmi conoscere ogni pesce, ogni frutto, ogni essenza".
Lussino ha sfornato navi, velisti e capitani di mare come pochi altri luoghi al mondo. Gente schiva, venuta su "senza scole". Solo pratica e "piade int'al cul", come Celestino Ivanchich, che nel 1859 si riprese la nave catturata dai francesi e diede all'Austria l'unica vittoria nella seconda guerra d'indipendenza. Narrano che quando ricevette la massima onorificenza dell'impero dal comandante della flotta arciduca Massimiliano d'Asburgo, disse solo: "Grazie". E poi, ripensandoci, allungò il discorso e aggiunse: "Son 'ssai contento, per bon". Il vero marinaio è di poche parole. Un minimalista, non si vanta di nulla, meno che meno delle tempeste. Le più belle sono sempre "quelle che si evitano". Chi ne parla "xe un mona", e basta. Lo sprezzo del pericolo esaltato dal fascismo era per questi lupi di mare nient'altro che un'emerita coglioneria. Venezia e poi l'Austria, combinandosi al sangue della stirpe illirica, aveva costruito una specialissima razza d'uomini. Un innesto di Mediterraneo e Mitteleuropa. Ci si dava del lei nelle forze armate austro-ungariche. Niente cazziatoni in pubblico, niente nonnismo celodurista. Quando il poeta Biagio Marin (nato a Grado e quindi suddito di Cecco Beppe) passò all'Italia per combattere la Grande Guerra e un ufficialetto arrogante gli diede del "coglione", lui - che aveva studiato con Michaelstaedter allo Staatsgymnasium di Gorizia e poi all'università di Vienna - si risentì imperial-regio all'istante. Disse: noi austriaci siamo abituati a essere trattati con rispetto. L'aveva capito perfettamente: finiva il mondo di ieri.
Fabrizio, il comandante che mi ha portato fino a Pola, chiama al telefono. La barca guasta resterà ferma una settimana, dunque devo cercare altri per proseguire. Segnala una bella vela in arrivo, la Xpresso, che può caricarmi la sera stessa a Lussino. Non mi porterà a Lepanto, ma un bel pezzo di strada sì. Accetto. Ormai il viaggio è un autostop, e non è poi male. In mare l'attesa è più eccitante che a un casello d'autostrada. Si riempie di senso, si nobilita. Sotto un pergolato perfeziono la mia Carta personale. Ormai, Lepanto è solo un pretesto per disegnarla. Si riempie di dettagli, costruisce una navigazione parallela. È come una pianta carnivora, inghiotte tutto. Le città sepolte degli Illiri, Spalato col palazzo di Diocleziano, imperatore dalmatico in Roma. Le montagne feroci del Morlacchi, i caravanserragli ottomani, i campi di pesca e le correnti, le favolose migrazioni del pesce azzurro e dei tonni, i siti dove trovi "el mar crosà" o dove la bora può sfondare il muro dei 150 orari. La strage di Cefalonia, la cacciata degli ebrei da Corfù, la battaglia di Capo Matapan. Le rotte di contrabbandieri e disperati.
Lussingrande, sera di rondini e usignoli, mare color stagnola, il campanile sopra il porticciolo che batte le nove. Aspetto la barca; al largo lampi lontani, nubi turrite come gelati al limone. Rispetto alla rumorosa Lussinpiccolo, tutto è ovattato, sommesso, contemplativo, quasi monastico. Lussingrande è già Levante. Non c'è l'aggressione tirrenica delle voci, dei colori, degli odori. Nell'aria sembra Ohrid, con i suoi monasteri sul lago e i monti color pastello della Macedonia. C'è già la magia del cristianesimo bizantino. Penso che i croati, forse, sono così iper-cattolici perché, con i serbi alle frontiere, hanno represso l'Oriente - dunque la potenziale ortodossia - che è in loro. Esattamente come i polacchi di fronte ai russi. "Noi croati - mi disse anni fa un zagabrese con raffinata autoironia - siamo soltanto dei polacchi ben riusciti". La Xpresso è a cinque miglia, mi avverte al telefono il comandante Ernesto Illy. Preparo i bagagli sul moletto, piego la bandiera col Leone. Accanto, veneti che banchettano. "Semo stai a Hvar - raccontano - gavemo magnà capretti bonissimi". Ahimé. Non li sfiora che Hvar si chiami Lesina (accento sulla "e"), che Koper sia Capodistria, o Trogir sia Traù. Non possono saperlo, perché non sta più scritto da nessuna parte. Istria e Dalmazia mandarono a Lepanto uomini e galere, ma i turbo-nazionalisti di Zagabria fingono che Venezia non esista. Fosse per loro, anche la parola "Dalmazia" sparirebbe. "Mare croaticum" trovi oggi su alcune carte. Tanto, i veneti non se ne accorgono. Spiegare a trevigiani o veronesi che il caprone allo spiedo non c'entra con la Dalmazia, ma è un'importazione dall'entroterra, diventa in queste condizioni un'impresa quasi impossibile. Che fare? Chiedono informazioni in inglese, poi si meravigliano che qualcuno risponda in italiano. Ti viene l'orticaria. Ma poi finisce che li perdoni. Va capito che il Veneto non è Venezia. È un altro pianeta: "Stato da tera", campagna di parroci, leghisti e zanzare. Venezia invece, come Istria e Dalmazia, è "Stato da mar", costa di capitani e mercanti-guerrieri. Treviso è distante dall'Adriatico come la Luna. O come Zagabria.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …