Umberto Galimberti: Cercando un rapporto senza ieri né domani

01 Settembre 2004
Quando si dice che è "il mestiere più vecchio del mondo" bisognerebbe anche aggiungere che dunque è un fossile della nostra cultura, il sintomo di epoche passate che potrebbe benissimo essere superato. E invece no! L'argomento viene invocato per dire che il problema è insuperabile e che quindi lo si può solo correggere mettendolo nell'agenda delle "privatizzazioni" rispetto al vecchio controllo dello Stato, o nel sistema della "medicalizzazione", dal momento che la diffusione dell'Aids ha nella pratica della prostituzione uno dei suoi veicoli. Sarà anche per questo che il 72 per cento delle donne italiane vuole la riapertura delle case di tolleranza, ammettendo implicitamente l'inevitabilità che i loro uomini frequentino le prostitute, e limitando la preoccupazione al solo fatto che mariti e fidanzati non portino in casa brutte malattie. Certo, di fronte all'inevitabile non resta che cercare i rimedi e la limitazione dei danni. Ma perché la prostituzione è inevitabile? Dal momento che non conosciamo nulla di inevitabile all'infuori della morte, non potremmo incominciare a considerare la prostituzione come un "sintomo", il sintomo del regime sessuale che caratterizza la nostra società? E dico "la nostra" perché, per quanto riguarda le epoche passate, come ci ricorda Lévi-Strauss, gli uomini hanno sempre venduto e comprato le donne, considerandole moneta corrente in ogni paese del mondo, e in particolare in quei paesi dove non esisteva un sistema monetario. E qui già possiamo arrivare a una prima considerazione: dal momento che la prostituzione è uno scambio di sesso contro denaro, perché non cambiare la prospettiva e guardare le cose dal punto di vista del denaro invece che dal punto di vista del sesso? Se è vero infatti che in Italia, stando almeno alle statistiche, su 50 mila persone che si prostituiscono, 25 mila vengono dai paesi dell'Est e dai paesi africani, 15 mila dai paesi sudamericani e solo 5 mila sono italiane, vien da pensare che nei paesi avanzati, dove esiste una maggior libertà di relazioni sessuali, la prostituzione si estinguerebbe se non fosse alimentata dalla fame nel mondo, che è un motore più potente di quanto non sia la voglia di incontri occasionali d'amore. Laddove non è la fame, ma il desiderio di un rapido miglioramento delle proprie condizioni finanziarie, come sembra essere il caso delle italiane che si prostituiscono, anche alla base di questa prostituzione non troviamo il sesso, ma ancora il denaro. Entriamo allora per davvero nella relazione sesso-denaro, e rendiamoci conto che nonostante la nostra emancipazione culturale, il nostro inconscio, molto più pigro della nostra coscienza, continua a considerare, a dispetto delle nostre ammissioni e per effetto di una lunga tradizione culturale e religiosa, il sesso sporco e il denaro volgare, perfetta sintonia tra i due elementi che nell'incontro mercenario trovano il modo di accoppiarsi. La prostituzione quindi come sintomo di una nostra arretratezza inconscia, come rivelatrice di uno stato profondo e non ancora evoluto di concepire la sessualità come pulsione momentanea, autonoma, e perciò slegata da qualsiasi scenario affettivo. Se la sessualità è questa, scrive Georg Simmel, "al desiderio risvegliato istantaneamente, e altrettanto istantaneamente spento che la prostituzione soddisfa, è adatto soltanto l'equivalente in denaro che non lega a nulla, che in linea di principio è disponibile in qualsiasi momento. Il denaro, infatti, una volta dato si separa in modo assoluto dalla personalità e tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo più netto. Pagando in denaro ogni cosa è chiusa nel modo più radicale, come si chiude con la prostituta dopo aver raggiunto il soddisfacimento". Di fronte al denaro tutto diventa merce, e l'ideale kantiano secondo cui "l'uomo è da trattare sempre come un fine e mai come un mezzo" trova nella prostituzione, ma forse anche nel matrimonio per interesse, la sua più cruda smentita. Il carattere impersonale, esteriore e oggettivo del denaro, il suo valore assolutamente neutrale e lontano da ogni elemento personale dice che quando un uomo paga una donna le misconosce la sua individualità, le nega la sua specificità, non le riconosce alcuna interiorità sua propria. La considera più come "genere" che come "individuo", in perfetta linea con la tendenza maschile a parlare delle donne al plurale, a giudicarle in blocco, lasciando intendere che ciò che nelle donne desta l'interesse degli uomini è esattamente lo stesso nella cameriera come nella principessa. Si tratta di incontri dove si scambia ciò che vi è di più personale e destinato alla massima riservatezza - il sesso - con l'elemento più impersonale, più neutrale, più lontano da ogni tratto personale che è il denaro. Questo scambio tra il personale e l'impersonale è ciò che crea maggior indignazione e senso di degrado, da cui le prostitute si salvano immediatamente rendendo impersonale la propria sessualità e separandola dal loro cuore. Ne nasce un rapporto senza ieri e senza domani, nella più assoluta non comunicazione, che le mogli e le fidanzate, senza ammetterlo, sono molto più disposte a concedere ai loro uomini di quanto non sarebbero disposte a concedere se si trattasse di una vera storia d'amore. In questo gioco l'unica innocente finisce con l'essere la prostituta che, lungi dall'adescare e dal sedurre, è lì solo a rispecchiare il nostro modo di concepire il sesso, che quando è separato dai sentimenti è paradossalmente ritenuto molto meno pericoloso del sesso coniugato ai sentimenti, come si può ben vedere in ogni rapporto che raramente si chiude per quella che da entrambi viene considerata una scappatella, mentre inesorabilmente si chiude di fronte a una storia d'amore. In tutte le transazioni commerciali chi ha denaro di solito ha più potere rispetto a chi fornisce la merce, e allora la prostituta ha due strategie per veder dipendere da sé chi la guarda dall'alto in basso. La prima è quella di innalzare significativamente il prezzo, in modo che il denaro, oltre una certa soglia, perda la sua indegnità e riveli la sua capacità a compensare valori individuali. Infatti il disprezzo che la buona società riversa sulla prostituta è tanto più forte quanto più essa è miserabile e povera, ma diminuisce significativamente quanto maggiore è il prezzo a cui essa si vende. Il prezzo alto la distingue dal "genere" e la fa riconoscere come "individuo" che, al pari di ogni altro, può mettere in campo la sua specificità e, in termini mercantili, il suo valore di rarità. L'entità della somma compensa la bassezza del principio di pareggiare i valori personali con il più impersonale indicatore di valori che è il denaro. La seconda strategia è quella di ribaltare il significato di quella domanda con cui solitamente si avvia la transazione con le prostitute. "Quanto vuoi?". Come scrive Gianfranco Bettin: "Quanto vuoi di me, quanto vuoi che mi mostri, quanto vuoi che ti restituisca al tuo disamore, che risarcisca della tua delusione e insoddisfazione. Quanto sesso vuoi, magari quanto amore traslato, surrogato, più che solo mercificato. Quanto vuoi sperimentare nel caso di rapporti con transessuali e travestiti?". Ciò che emerge da questo interrogativo è di volta in volta lo specchio della condizione maschile, dove incontriamo chi cerca sulle strade a pagamento quel che non trova nella vita, chi non finisce mai la guerra con i sensi di colpa o con la sua volontà di possedere ciò che, senza denaro, non potrebbe neppure illudersi di sognare, chi è alle prese con storie di solitudini, di impotenze, di desideri e bisogni frustrati, repressi, reticenti, mutilati. "Quanto vuoi?" che io ti renda per la tua erogazione in denaro che vorrebbe comprare ciò che la tua vita non è stata in grado di ottenere? Se vuoi io ti vendo anche l'umiliazione con cui tu, da buon masochista, vorresti umiliarti, obbedendo agli ordini che, dietro tuo ordine, io dovrei darti. Tutto ciò mi fa sospettare che, sotto sotto, quello che vuoi comprare non è il sesso, ma il potere su un altro essere umano, per raggiungere il quale sei disposto persino alla tua degradazione. Non sono da meno quelli che vogliono redimere le prostitute e, mentre le comprano, chiedono loro come possono dare se stesse per denaro. È una cosa che li disturba, perché in qualche modo si sentono traditi. E allora, ben mascherata, sotto la voglia di redenzione, ciò che lavora è l'antica idea maschile di proprietà, che poi è la meta ultima a cui tende il denaro che passa di mano in mano. In tutto ciò, scrive Kate Millett: "C'è una specie di perfezione. L'uomo trova un credito morale trattando con condiscendenza la prostituta, senza smettere di scopare la puttana, congratulandosi con se stesso per essersi accorto della sua miseria". Il problema a questo punto, non è quello intorno a cui tutti i problemi si affollano, e precisamente se recintare le prostitute in bordelli di Stato o in bordelli privati, provvisti naturalmente di assistenza medica, perché gli uomini che li frequentano possano farlo senza rischio. Il problema è semmai quello di guardare la prostituzione come una cartina di tornasole in cui è possibile scorgere, nell'autodistruttività della prostituta (che alimenta tanto la letteratura quanto l'opinione corrente), nel suo distacco dalla coscienza della propria condizione, il riflesso a tinte forti di quell'arcaica tendenza, assolutamente non estinta nella nostra società "evoluta", che vuole distruggere nelle donne il loro io, il rispetto di se stesse, la loro speranza, il loro ottimismo, la loro immaginazione, la loro sicurezza, la loro volontà, la loro individualità. Tutto ciò non è da mettere in conto, come vuole Freud, al "naturale masochismo femminile", ma a quel meccanismo di adattamento che è facile riconoscere in ogni gruppo oppresso, i cui membri, se non cooperano alla propria oppressione, interiorizzando l'odio e il disprezzo del loro oppressore, finiscono per essere puniti e al limite perire. Questo perverso meccanismo deve richiamare tutta la nostra attenzione. Esso è noto non solo alle prostitute, ma anche alle mogli devote e fedeli.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …

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