Umberto Galimberti: Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo.

02 Settembre 2004
Ma che cos'è la vita a due? Una combinazione di forze per sopperire alla propria debolezza, un'opportunità per possedere una casa propria, una modalità socialmente accettata per allontanarsi dai propri genitori, una fuga dalla solitudine, un sacrificio dettato dalla compassione, un effetto indotto dalla fascinazione o dall'ammirazione, un aiuto reciproco fondato sul denaro, un'ascesa sociale garantita dal prestigio di un nome, un estremo rimedio contro l'insonnia o contro la dispepsia, un'autorizzazione a procreare, un sedativo contro l'eccesso passionale, una via d'accesso all'adulterio, un'anticamera alla separazione, un patto di cameratismo, un espediente per sentirsi normali, un modo per non destare sospetti e curiosità, una casa di riposo per la vecchiaia, una casa di piacere, una camera di tortura? Se così stanno le cose, e per molti le cose stanno così, scegliere un uomo o una donna per tutta la vita significa scommettere senza essere supportati da alcuna buona ragione, perché nelle cose d'amore la ragione non ha gran voce in capitolo. E ciò è vero soprattutto oggi dove le ragioni di censo, le ragioni di rango, le ragioni economiche, le ragioni religiose, le ragioni sociali non hanno più in questo campo una loro forza cogente, perché il trionfo dell'individualismo, che caratterizza la nostra cultura, ha fatto sì che l'amore non abbia altro fondamento che in se stesso, cioè nell'individuo che lo vive in base alla sua personalissima idea di felicità. Le norme della tradizione, che tanta forza hanno avuto nella regolazione del vincolo matrimoniale, oggi non hanno più influenza. E con la tradizione recedono le leggi dello Stato, le norme del diritto, i precetti della Chiesa che, con la loro rinuncia al controllo diretto dell'intimità, consentono all'amore di dispiegare la sua logica interna, che non conosce altra ragione che non sia la spontaneità del sentimento e la sua sincerità. E questo sia nel caso del matrimonio sia nel caso del divorzio, caratterizzati entrambi dal rifiuto del calcolo, dell'interesse, del tornaconto, fino al rifiuto dell'accordo, della responsabilità, della giustizia, in favore dell'autenticità del sentimento e della sua incondizionatezza. Oggi, amare o non amare non è un'infrazione giuridica, non è un atto criminale, anche se da ciò dipende la vita di un'altra persona, che può venir ferita più profondamente di quanto non possa menomare una malattia e uccidere la morte. Assolutizzato e slegato, come mai prima d'ora, da ogni referente sociale, giuridico, religioso, l'amore oggi si annuncia come assoluta promessa di felicità o come guerra senza frontiere, combattuta con le armi acuminate dell'intimità. Perché così è quando a promuovere l'amore sono le esigenze di autorealizzazione fondate sulla cieca intensità del sentimento. Se la tendenza fondamentale del nostro tempo è l'essere padroni della propria felicità, misurata sull'intensità della passione, per accedere al matrimonio bisogna disporre di una capacità di tedio quasi morbosa, a meno che non vi si acceda sognando una possibile passione capace di agire come una distrazione permanente, e così scongiurare le rivolte della noia. Non si ignora che la passione potrebbe essere un'infelicità, ma si suppone che sia un'infelicità più esaltante della vita quotidiana, più elettrizzante della piccola felicità del matrimonio. Quindi: la noia rassegnata o la passione. L'"uomo della passione", come potremmo chiamare l'uomo del nostro tempo, attende dall'amore quella rivelazione su se stesso o sulla vita in generale, ultimo sentore della mistica primitiva, pallida reviviscenza dell'amore romantico col suo corredo di imprevisti, di rischi eccitanti, di gioie languide e violente. È tutto l'orizzonte del possibile che si spalanca, un destino che si arrende al desiderio con le sue illusioni di libertà e di pienezza. Ma, si domanda Denis De Rougemont in L'amore e l'Occidente: "Chiameremo libero l'uomo che possiede se stesso o l'uomo della passione che cerca di essere posseduto, spogliato, gettato fuori di sé medesimo, nell'estasi?". Se lo visualizziamo a partire dalla passione e dai valori che dalla passione scaturiscono, il matrimonio non può apparire che come "una dolce camera a gas". Ma la passione ha davvero l'ultima parola sui vincoli d'amore? Il sospetto ormai non è neanche più un sospetto, ma una certezza. Forse l'amore-passione non è mai stato per davvero un'esperienza, ma in prima istanza una faccenda letteraria, che a poco a poco ha sedotto la religione, la filosofia, l'antropologia, la psicologia e più in generale le scienze umane, per poi calarsi nelle onde mediatiche, nella musica classica e leggera che sembra non possano vivere senza una mediazione d' amore, infine negli inserti pubblicitari per aiutare le merci a uscire dagli scaffali dei supermercati ed entrare nei carrelli degli acquirenti. L'amore-passione, infatti, vive di ostacoli, intensi eccitamenti, spasmi, congedi, addii, il matrimonio, invece, vive di consuetudini e vicinanza quotidiana. L'amore-passione vuole l'amore lontano dei trovatori, il matrimonio l'amore vicino dei coniugi. E in un mondo come il nostro, che ha conservato come ultimo residuo dell'amore, se non la passione, la nostalgia della passione, è ovvio che si faccia strada la tendenza ad accostarsi al matrimonio solo nella prospettiva della possibilità della separazione e del divorzio, di cui tutti ne chiedono la facilitazione, quando il problema, forse, non è di rendere facile il divorzio, ma di rendere difficile il matrimonio, se per concluderlo si pensa possa bastare l'amore-passione. Ma sappiamo che le ragioni dell'etica non hanno mai avuto buon gioco di fronte agli spasmi della passione romantica. E questo soprattutto in una cultura del consumo come la nostra, dove, non essendoci nulla di durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d'azione che porta all'autorealizzazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti. Accade allora che questa trama illusoria della libertà di scelta si traduce, come osserva Christopher Lasch ne L'Io minimo, in un'"astensione dalla scelta", perché dove i rapporti personali seguono lo schema dei prodotti di consumo, la scelta non implica più impegni e conseguenze, perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, di una moglie, di un marito o di una carriera, di una gravidanza, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all'apparenza più vantaggiose. Ma là dove la scelta non implica più effetti irrevocabili, là dove non muta il corso delle cose, dove non avvia una catena di eventi che può anche risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora è l'idea stessa di scelta che nega la libertà che pretende di sostenere. E allora, guardando dal punto di vista dell'amore-passione, il matrimonio, per il solo fatto di essere una promessa irrevocabile, è come dice Tolstoj: "Un inferno". Ma la passione è l'unico modo in cui può declinarsi l'amore? Se la passione è patire l’altro, non si dà un amore che, invece di patire, "agisce", che invece di declinarsi sul solo versante della passione, trascinata dalla discontinuità delle sue oscillazioni, "decide" in modo irrevocabile e, a partire da questa decisione, non subisce l'amore, ma lo crea? Forse in questo senso Denis De Rougemont può dire: "La fedeltà è assurda almeno quanto la passione, ma dalla passione si distingue per un costante rifiuto di subire i suoi estri, per un costante bisogno di agire per l'essere amato, per una costante presa sul reale, che cerca di non fuggire ma di dominare. Dico che una fedeltà così intesa fonda la persona. Perché la persona si manifesta come un'opera, nel più largo senso del termine. Essa viene edificata alla maniera di un'opera, con gli stessi criteri, dei quali il primo è la fedeltà a qualcosa che non esisteva, ma che si viene creando". Se l'amore-passione, che alimenta sia la visione romantica dell'amore sia la visione mistica, è una sorta di evasione dal mondo per toccare in sogno la felicità assoluta, l'amore-azione che fonda il matrimonio non evade dal mondo, ma assume il proprio impegno in questo mondo, non per un'immotivata presa di posizione a favore della fedeltà, che di per sé non è un valore, ma perché, attraverso la fedeltà, prende avvio quell'azione d'amore che di continuo crea l'altro come si crea un'opera. Naturalmente tutto ciò diventa comprensibile se appena si riesce a concepire l'amore non come uno "stato", qual è ad esempio la condizione dell'innamorato, ma come un "atto" che, invece di divinizzare il desiderio e la sua incontenibile brama che consuma la vita, invece di rendergli un culto segreto e di aspettarsi un misterioso accrescimento di gioia, sta alla parola data e, a partire dalla fedeltà al patto, prende a costruire scenari d'amore. L'attuale crisi del matrimonio che caratterizza l'intero Occidente dice, al di là delle sorti individuali, che nella nostra cultura non si ha altra concezione dell'amore che non si risolva nella passione, la quale, non avendo di fronte a sé un contraltare, viene divinizzata. La passione non è da condannare, ma la sua divinizzazione è pericolosa, perché ci trattiene in un polo di quella tensione creatrice in cui trova la sua articolazione ogni dinamica esistenziale. L'altro polo non è la moderazione, il contenimento, la proibizione, su cui insistono tutte le morali, ma l'azione che non ignora la felicità della passione e forse neppure la sua sregolatezza, ma non si accontenta di una felicità passiva, perché vuole creare. Non una vita dopo la morte come promette il messaggio religioso, ma una vita prima della morte.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …

La cattura

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