Vittorio Zucconi: I fantasmi del Vietnam

03 Settembre 2004
Dal cimitero degli "sporchi trucchi" elettorali dove ogni campagna presidenziale americana va a scavare, torna quella guerra in Vietnam che tutti proclamano sepolta, ma che non vuol saperne di restare morta, conferma della presa angosciosa che la catastrofe Indocinese continua a esercitare sulla memoria delle generazioni al potere. L'ossessione sembrava essere stata "superata" nel 1991, come aveva detto frettolosamente George Bush senior dopo la vittoria nella guerra contro Saddam, Part I. Poi parve rimossa per sempre dal 1992, quando l'America elesse il renitente Bill Clinton e poi nel 2000, quando scelse l'imboscato Bush. Ed ecco invece che oggi, mentre si combatte una guerra vera, il segno di contraddizione e di rissa che George W. Bush e John Kerry si rinfacciano fino agli insulti e alle scuse pubbliche (Bush, ieri) non è l'Iraq, dove si muore ogni giorno e i caduti americani avvicinano quota mille. È quel Vietnam dove l'ultimo soldato Usa morì 31 anni or sono. Il fatto che una guerra morta spodesti una guerra viva nelle polemiche e negli insulti tra le forze politiche, è la prova dello stato confusionale e dell'imbarazzo con i quali tutta la classe dirigente americana, di destra come di sinistra, si colloca di fronte al "sanguinoso pasticcio" (parole di un deputato repubblicano dimissionario) iracheno dal quale nessuno sa davvero come uscire con onore e con successo. Dunque il Vietnam diviene, almeno nelle intenzioni di Kerry che non propone una vera alternativa alla occupazione per timore di apparire "soft", molle, diviene l'ombra indiretta dell'Iraq, la proiezione e il surrogato poco serio di una discussione seria sulla cosiddetta "guerra al terrore" che le parti non hanno il coraggio di affrontare. La rissa metaforica fra Kerry l'eroe che si presenta come il "soldato Johnny" capace di guidare l'America e la corte di Bush l'imboscato con la coda di paglia che organizza una controffensiva indiretta per dargli del millantatore, ha dominato l'intero mese di agosto, come se meriti o demeriti conquistati 35 anni or sono da "W" o da "JFK" avvalorassero le loro credenziali per guidare l'America fino al 2009. Si è arrivati alle minacce di querele e di denunce alla commissione federale per le elezioni, da parte di Kerry, di fronte alla diffusioni di libri, interviste e spot costruiti dai "bushisti" con la tecnica della zampa di gatto, usando "reduci anti Kerry" per smentire i "reduci pro Kerry". È stato uno spettacolo insieme deprimente e inquietante per chi vorrebbe ascoltare i due pretendenti alla guida del mondo discutere di problemi immediati e futuri, il dramma del petrolio e la stagnazione economica internazionale, la deriva russa verso l'autoritarismo e la Corea del Nord, il collasso delle alleanze e del prestigio americano nel mondo, il dramma della povertà e del sistema sanitario negli Usa, il futuro dei costi del danaro e del dollaro, il rapporto tra la esportazione dei posti di lavoro e l'importazione di beni prodotti a salari da schiavi e, poi, ovviamente, l'Iraq, l'Iran, la Palestina, Israele, le sfide della ricerca avanzata che insidia il territorio del sacro. Invece, da settimane siamo costretti ad assistere a discussioni e rivelazioni su che cosa davvero abbia fatto il tenente di Marina John Kerry sul Mekong, quanti Vietcong abbia ucciso, se abbia realmente salvato i suoi compagni sul barchino di alluminio e abbia meritato i nastrini dei quali tornò coperto, solo per buttarli via. Se Kerry si trova ora intrappolato nella gabbia del proprio eroismo che ha costruito presentandosi alla nazione con un "tenente Kerry a rapporto" non ha altri che se stesso da rimproverare. Quando ha costruito un intero congresso di partito e poi una campagna elettorale sulle proprie imprese belliche, quelle stesse che poi denunciò tornando in patria, ha aperto il fianco non soltanto alle accuse di essere colui che ha sempre due opinioni su tutto, ma alla squadra degli "sporchi trucchi" repubblicani guidata dallo spregiudicato Karl Rove con l'aiuto di qualche vecchio rottame del team del maestro, Richard Nixon. Rove è lo stesso genio della calunnia che organizzò una campagna di menzogne contro il senatore McCain nel 2000, spargendo nel sud la voce falsa che avesse avuto un figlio da una relazione illegittima con una ragazza di colore e che fosse contrario ai finanziamenti per la ricerca sui tumori al seno. E appena la calunnia fa effetto, come fece presa contro McCain nel 2000 e ha fatto contro Kerry oggi, deprimendo i sondaggi favorevoli tra i reduci e gli elettori incerti, Rove disconosce la paternità degli spot, dei libri, delle accuse. Le attribuisce a qualche troppo entusiastico supporter e manda il suo protetto in pubblico a chiamarsi fuori. Infatti ieri Bush in camiciola a scacchi, nel giardino del proprio ranch texano, ha preso le distanze dai "reduci contro Kerry", ha denunciato, con involontario umorismo, lui che è il campione dei milionari, queste campagne di calunnie "pagate da milionari" e ha addirittura elogiato il servizio militare dell'avversario, che si battè "in modo ammirevole" e può "essere orgoglioso di quanto fece in Vietnam". Il Presidente ottiene così tutti i vantaggi politici dalla propaganda calunniosa, sperando di non pagare il prezzo. Roba vecchia, nel pozzo delle campagne elettorali non solo americane, trucchi sporchissimi che tutti utilizzano strepitando contro gli avversari quando fanno altrettanto. Meccanismi spregevoli, ma che servono a mettere alla prova utilmente i duellanti e dimostrare come essi sappiano reagire nei momenti di crisi e non è questo che certamente può scandalizzare chi ha vissuto molte campagne presidenziali. È semmai l'incantesimo perverso che questa parola, Vietnam, ancora sa esercitare, 31 anni dopo la fuga ignominiosa da Saigon a colpire, nella dimostrazione che la "sporca guerra" resta indigerita e mai metabolizzata sullo stomaco di una nazione. Può essere una questione generazionale, che svanirà quando i trentenni, per i quali il Vietnam è un noioso documentario sui canali di rievocazioni storiche, prenderanno il potere e gli eroismi, le viltà, le furbizie, le diserzioni, gli errori dei loro padri schizzati per sempre dal fango di quella guerra diverranno irrilevanti. Sempre che la prossima generazione di leader politici non debba, fra dieci o venti anni, rimproverarsi, azzannarsi e calunniarsi su quello che essi fecero attorno all'anno 2004, per salvare l'onore dell'America in Iraq.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …