Vittorio Zucconi: La “Convention” repubblicana. Al Madison domina l'euforia. È fatta, Kerry alla deriva

03 Settembre 2004
Non la vedremo sul podio a fare il suo numero di varietà, come hanno fatto le gemelle Bush nel solito sketch delle figlie adoranti e un po' birichine o il culturista Schwarzenegger, ma la regina della Convention repubblicana, è lei, è l'euforia. È il senso di avere svoltato l'angolo nella corsa alla Casa Bianca e di avere affondato le speranze, già non eccelse, di John Kerry. Dal mondo reale, oltre i confini della bolla corazzata dove i repubblicani recitano questa sera il loro gran finale con il discorso di Bush, arrivano i segni che la barca democratica è alla deriva, che John Kerry annaspa nell'opera di "damage control", per turare le falle e che, sintomo infallibile di sbandamento, i suoi finanziatori stanno tempestando il suo quartier generale minacciando di tagliare le elemosine, se lui non si scuoterà dalla apatia e non cambierà equipaggio e rotta. Per lo sconforto degli elettori progressisti e per la gioia degli elettori conservatori, la vera notizia che viene dalla Convention organizzata a New York con ammirevole cinismo per sfruttare emotivamente la tragedia di settembre, è il senso che il "big Mo", come lo chiamava Bush il Vecchio, il "momentum", la spinta inerziale che misteriosamente cambia il corso delle partite, sia con George W. I sondaggi interni dicono che il Presidente ha raggiunto o superato l'avversario su tutti i temi fondamentali, dall'economia alla guerra, che gli spot d'insulti contro le sue antiche glorie militari hanno funzionato, che persino tra le donne e i reduci, che sembravano basi sicure per i democratici, George è in rimonta veloce. Kerry è descritto come furioso, impegnato a cercare nuovi consiglieri, a licenziare quelli che gli avevano raccomandato di non reagire alle aggressioni. Ha cercato di farlo ieri, con un discorso troppo lungo e troppo complesso come è nella sua natura di vecchio parlamentare, alla ‟American Legion”, la più grande associazione di ex combattenti, promettendo benefici per loro, ma ha ancora una volta mostrato il limite fondamentale della propria candidatura: la mancanza di uno slogan accattivante e semplicistico da opporre al tam-tam della "Guerra al Terrore" che i repubblicani ripetono, fingendo che Bush la stia vincendo. "Se il partito repubblicano ha vinto quattro delle ultime sei elezioni presidenziali" dice David Gergen, che è stato consigliere per presidenti di diversi partiti per 30 anni, da Nixon a Clinton, "una ragione c'è, ed è che i repubblicani sanno fare propaganda elettorale meglio dei democratici". Soltanto se il candidato ha un eccezionale carisma personale, come Bill Clinton, la sinistra americana riesce a saldare le contraddizioni e le complessità di un partito che oscilla tra centrismo e progressismo senza mai trovare un equilibrio stabile fra le sue molte anime, e di tutto Kerry può essere accusato meno che di essere un leader carismatico. La sua risposta al panico che sta investendo la campagna è stata di rivolgersi al passato, di pescare nel vecchio baule di Clinton e di Gore per trovare rinforzi. Ha richiamato in servizio, facendosi accompagnare da lui nei viaggi aerei, uno dei consiglieri stampa di Clinton, Joe Lockhart, per restaurare la propria immagine logorata da settimane di attacchi ad personam. Ha ripreso in servizio lo specialista di sondaggi e ricerche d'opinione Stan Greenberg, che lavorò per Gore e poi in Italia per l'Ulivo nelle politiche vinte da Berlusconi, non proprio il massimo delle credenziali. Gongolano le reti radio tv e i media della destra, e con ragione. "Adesso la strada è tutta in salita per Kerry" ammette l'ex governatore della California, Jerry Brown "e la montagna da scalare è alta". Si innervosisce il grande sponsor di Kerry, il fratello del vero JFK, il senatore Ted Kennedy che tempesta di telefonate la signora dal grande casco di capelli bianchi, Mary Cahill, che lui aveva ceduto, e imposto, come manager della campagna elettorale. Le chiede perché il loro uomo non reagisca, perché non utilizzi il "ciclo delle 24 ore", il dogma propagandistico secondo il quale non si deve mai permettere che un attacco avversario passi senza essere contrato il giorno stesso. Mary Cahill, che per anni aveva condotto le campagne elettorali di Ted Kennedy, è data per sconfitta e licenziata, come già il predecessore che fu cacciato durante le primarie, quando Kerry sembrava spacciato. Louis Susman, il tesoriere della campagna, sta cercando di convincere il "boss" che le fonti di finanziamento si stanno inaridendo, proprio ora che comincia la fase finale, quell'autunno nel quale l'immenso vantaggio finanziario di Bush rovescerà spot a tappeto sugli stati pencolanti come Florida, Pennsylvania, Illinois, Ohio, New Mexico. E Kerry, che credeva di potersi riposare sull'isola dei Vip bostoniani già cara ai Kennedy, Nantucket, facendo windsurf, ha dovuto lasciare la muta di gomma, rimettere la grisaglia e parlare ai veterani, per riportare il volto sui teleschermi dominati dai repubblicani e dal loro show. Gli speranzosi, preparandosi alla stangata nei sondaggi che uscirà da una Convention che ha consumato a coprire Kerry di improperi come i democratici non fecero con Bush sperano che il loro uomo si scuota. Rammentano che, nella sua carriera, lui ha sempre giocato meglio quando è in svantaggio e si scuote dalla apatia che lo afferra soltanto quando sente vicina la sconfitta, ma non basteranno l'energia e la grinta, per strappare la Casa Bianca a un presidente che dispone insieme della macchina elettorale repubblicana e della macchina del potere. Mancano 60 giorni al voto, poco tempo, e Kerry ha disperatamente bisogno di un messaggio graffiante, di qualcosa che persuada il 5% di indecisi residui, che lui non è soltanto un "Bush light", una edizione più digeribile e leggera di George W Bush.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …