Vittorio Zucconi: La “Convention” repubblicana. La trincea di manhattan

03 Settembre 2004
Due popoli alieni che per quattro giorni accettano diffidenti di coabitare sullo stesso pianeta come un tempo le famiglie sovietiche dividevano lo stesso appartamento odiandosi, Republicans e Newyorkers vivono da separati in casa quel teatrino dell'assurdo chiamato "Convention", cordialmente detestandosi ed evitandosi. Se non avete i mille dollari (carte di credito accettate) necessari per entrare nel party organizzato da ‟Newsweek” al "Four Seasons Hotel" o non volete andare alla chiesa di Saint Mark nella Bowery per partecipare al "Vomitorium" dei nauseati da Bush e vomitare gratis, la Convention è un'estranea di passaggio. Da quando i congressi dei partiti americani sono stati svuotati di ogni contenuto politico reale e di ogni suspense, le Convention piombano ogni quattro anni su città innocenti e indifferenti come astronavi intergalattiche scaricando esploratori che non vedono l'ora di andarsene, tra indigeni che non vedono l'ora che se ne vadano. New York, dice il direttore della sezione locale dello Fbi, l'italo americano Damuro, ha "la tredicesima forza armata del mondo", se fosse una nazione autonoma, e si vede. La città che ha subito il grande martirio dell'11 settembre, ora deve vivere il piccolo martirio di un'occupazione militare. Come già Boston un mese addietro, così New York conosce il tormento della rigida divisione di casta che colpisce queste città sopra le quali, come Genova ricorda, si abbatte la maledizione del grande evento voluto per prestigio e poi subito per danni. Vive la feroce discriminazione tra chi ha "l'accreditamento" e chi non ce l'ha. Con un aggravante. Che il Madison Square Garden è piantato nel cuore di Manhattan, sopra il principale snodo ferroviario, stazione e crocevia del traffico di auto e di pendolari e non può essere sigillato e chiuso come furono le linee del metrò sotto il palazzetto dei democratici a Boston. I treni a lunga percorrenza che arrivano alla stazione sotto il Garden sono fermati a Newark, l'ultima fermata prima di New York. I passeggeri identificati uno per uno. I loro bagagli ispezionati. E al minimo dubbio arrestati, come è stato arrestato e trascinato il mio vicino di viaggio, sul rapido "Acela" numero 2222 alle ore 19 e 30 di domenica proveniente da Washington, perché la targhetta sulla sua valigia portava il nome della moglie, diverso dal suo nella patente. Il Garden occupato dai Bush Boys sta nel cuore di Manhattan come una cisti dolorosa ma benigna, perché destinata a scomparire spontaneamente fra quattro giorni, irritante perché l'incistamento dei 10 isolati che lo circondano è garantito da chilometri di transenne d'acciaio, da muraglie di jersey di cemento, da scavatrici e schiacciasassi giganti strategicamente piazzati per bloccare le strade e fermare ogni autobomba, in una incruenta, ma esemplare metafora di quella "zona verde" a Bagdad fortificata per proteggere le gli occupanti e i loro collaboratori locali. Persino gli intrepidi e ruvidi tassinari di Manhattan, preoccupati dall'abbondanza fra loro di nomi come Mohammad, Khaled o Hassam, tendono a tenersene alla larga, nella giusta convinzione che dieci dollari di corsa non valgano dieci giorni in un lager del servizio immigrazione, per controllare documenti, origini e amicizie. Nessuno sa con precisione quanto vasto sia l'esercito di occupazione nella "Bagdad sull'Hudson", perché la cifra è segreta, ma l'esercito di uomini e donne armate calati su Manhattan per proteggere George Bush dalla propria nazione, deve superare tranquillamente i centomila militi e avvicinare la forza del contingente d'occupazione in Iraq (128 mila). I treni dei commuter, dei pendolari, sono semivuoti, come vuoti sono i rapidi da Boston e da Washington, occupati esclusivamente dal popolo della tesserina magica, reporter e groupies della politica con l'accreditamento, che permetterà di fare la spola fra i due mondi, quello vero della città e quello artificiale del Congresso. Universi che non si parlano e non si ascoltano. Fuori le centoventimila persone (secondo la polizia) e trecentomila secondo i giornali, che ancora brulicano per la città e si radunano a Central Park, stempiando ancor di più il sindaco Bloomberg che aveva speso 18 milioni di dollari per ricoprire di zolle d'erba fresca il grande prato centrale. Dentro i trentamila annoiati fino alle lacrime da discorsi riscaldati al microonde, che nuotano nell'aria azzurrina e liquida da acquario tipica di gli studi televisivi, per fare il loro dovere di comparse al grido di "Four more years", ancora quattro anni per Georgie. L'apartheid fra la città fuori dalla "zona verde" creata nella Bagdad sull'Hudson e l'entusiasmo plastificato della cittadella aliena dentro il Garden non è soltanto figlia dell' ansia o dei giusti timori di polizie che devono essere, per contratto, paranoiche. È la rappresentazione di una realtà evidente, e non solo qui, alla sagra repubblicana di San Giorgio Re. Tra una Convention e la città martirizzata non ci può essere alcun rapporto perché i congressi non parlano alla città, parlano sopra la sua testa, si rivolgono al solo pubblico che conti, quello della televisione, per il quale queste sagre della banalità sono sceneggiate. Di una New York, che non voterebbe per Bush neppure se corresse da solo, al burattinaio elettorale di "W", Karl Rove non potrebbe importar di meno. È stata scelta cinicamente per essere quello che a Hollywood si chiama il "backdrop", lo sfondo, lo scenario, nella speranza che l'associazione tra Bush e il cratere, tra lui e la guerra al terrore scuota le network tv nazionali, che dedicheranno soltanto tre ore di diretta alla Convention come fecero a Boston. Non si possono biasimare i Newyorkers se ignorano i Republicans, se i topolini del quotidiano, dei treni, del traffico strangolato, delle marce autoreferenziali al seguito dei vecchi e nuovi idoli e degli eterni perdenti come Michael Moore e Jessie Jackson (798 aspiranti Moore hanno chiesto alla polizia il permesso di girare scene della Convention, sognando Cannes), guardino all'elefante repubblicano con distaccato fastidio. Come gli inservienti del circo, anche essi sanno che saranno costretti a seguirlo con il secchio, per raccoglierne i depositi.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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