Vittorio Zucconi: Schiavi, il giorno della memoria nell'era dei servi del lavoro

03 Settembre 2004
"Se volete davvero commemorare la giornata internazionale contro la schiavitù, lasciate perdere le cerimonie e toccate invece la maglietta che avete indosso. Le probabilità sono che sia stata fabbricata ieri mattina da uno schiavo". Lo dice Koichiro Matsuura, il direttore dell'Unesco, in questo giorno 23 agosto che le Nazioni Unite hanno scelto per commemorare l'anniversario di quello che, ottimisticamente, si considera l'inizio della fine dello schiavismo nell'età moderna, la rivolta del 1791 nell'isola che produsse la prima repubblica indipendente nata dai deportati africani, Haiti. È bello, e giusto, compiacersi un poco per il cammino fatto da quel giorno, ricordare lo scatto di dignità della nazione che più di ogni altra ha profittato del traffico di schiavi, il Regno Unito che l'abolì, rileggere il proclama di emancipazione scritto dal Abraham Lincoln, le memorie dei grandi abolizionisti neri americani, come Frederick Douglas, ma non troppo. Perché tra i discorsi e i nuovi musei, come quello inaugurato ieri nello stato americano dell'Ohio, la cifra che fa male è un'altra. Sono gli almeno 27 milioni di schiavi che oggi ancora esistono. Ma i 27 milioni di donne, uomini, bambini che possono essere chiamati formalmente "schiavi" secondo definizioni che i piantatori della Lousiana e i capitani della marina britannica che li trasportavano nella celebre rotta triangolare fra Inghilterra, isola di Gorree in Senegal, i Caraibi e di nuovo l'Inghilterra, troverebbero familiari, sono soltanto il relitto doloroso di un passato lungo quanto la storia dell'umanità, dove la servitù certamente contende alla prostituzione il primato di "prima professione". La frase del direttore giapponese dell'Unesco allude alla nuova metamorfosi di quello che un tempo si sarebbe chiamato lo spietato sfruttamento del lavoro e oggi si chiama effetto della "globalizzazione" sul lavoro manuale. Non ci sono censimenti attendibili, né statistiche verosimili sul prezzo umano dell'outsourcing, dell'esportazione delle manifatture nelle regioni della terra dove nulla e nessuno difendono il lavoro, ma in uno studio del ‟Cato Institute” di Washington, uno dei più seri e autonomi "serbatoi di cervelli americani", è scritto per esempio che il costo medio orario di un laureato in economia e commercio in India, dove 360 mila posti di lavoro americani da contabili sono volati soltanto nel 2003, è il 5 per cento, un ventesimo, del costo di un collega americano. Mentre nel lavoro manuale, nelle fabbriche di magliette, palloni, scarpe, paccottiglia di moda e bric-a-brac elettronico, i nuovi schiavi in Cina, in Pakistan, in Thailandia, in Malaysia, in America Latina, misurano i salari non in euro o dollari all'ora, ma in centesimi. Ha scritto Thomas Friedman, che pure della globalizzazione è un sostenitore accanito, che lo stipendio medio annuale di un operaio cinese è di mille dollari l'anno, due dollari e 70 al giorno, che salgono a 4 dollari al giorno per la regione di Pechino. La terza età dello schiavismo, dopo le servitù dell'età antica e lo schiavismo delle piantagioni europee nelle Americhe principalmente riservato agli africani, è quella aperta dall'outsourcing, dalla possibilità di trasportare posti di lavoro laddove il lavoro è più a buon mercato e, soprattutto, indifeso. E se i cantori di questa terza età dello sfruttamento selvaggio si affrettano a far notare che anche un lavoro a cucire palloni è meglio della morte per inedia e lo sviluppo industriale delle nazioni del terzo mondo porterà inesorabilmente allo sviluppo di una coscienza e quindi di una resistenza operaia come già in Europa, sono curiosamente sempre i teorici, gli intellettuali, gli scrittori, le categorie automaticamente protette dai rischi di vedersi il lavoro "esportato" in Cina o in India a celebrarne le meraviglie. Dunque lo schiavismo, del quale ieri si è celebrata prematuramente la morte, come un virus si adatta alle metamorfosi e all'evoluzione del corpo sociale. In Africa, dove le colture estensive di prodotti come il cacao rendono la schiavitù tradizionale - il ragazzo venduto o rapito, il prigioniero sconfitto e usato come chattel, la donna serva - ancora presente nell'89% del territorio continentale, le condizioni economiche mantengono lo schiavo nel suo ruolo tradizionale. In Sudan, almeno 15 mila persone all'anno, se non sono uccise, vengono rapite per essere schiavizzate. Ma anche in Brasile, secondo il rapporto dell'Onu, mille persone sono state liberate lo scorso anno da piantagioni amazzoniche. In Pakistan, nella provincia di Sindhi, persone di ogni età sono comperate e vendute. In Mauritania, dove la schiavitù è stata formalmente abolita nel 1981, nessuna punizione legale colpisce i padroni che tranquillamente ancora la praticano. "Ogni giorno milioni di persone precipitano in schiavitù" denuncia il direttore del nuovissimo museo dell'Ohio, dove i curatori hanno ricostruito una della pagine più belle e meno conosciute della schiavitù in Nord America, "la ferrovia sotterranea" che, senza binari né treni, collegava stazioni segrete di soccorso e di assistenza per aiutare schiavi fuggiti a raggiungere il nord, sfidando la forca che attendeva i complici dei fuggiaschi. Quasi 180 milioni di bambini sotto i dieci anni sono al lavoro nel mondo, addetti a produzioni tossiche. Ottocentomila donne, spesso bambine e non di rado bambini, sono introdotti ogni anni nella pipeline della prostituzione forzata. E i 500 mila (o 600, o 700 mila) illegali che ogni anno attraversano di corsa le acque in secca del Rio Grande per lavorare come stagionali clandestini alla raccolta di carciofi e pomodori in California, sono la versione postmoderna di quel primo carico di africani che un mercante britannico vendette ai piantatori di tabacco in Virginia, nel 1616. Lo zio Tom è vivo ed è ancora tra noi.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …