Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. L'arcipelago delle isole calve

10 Settembre 2004
Gran giornata di maestrale, e col maestrale tutto cambia. Non è più una navigazione, è uno sposalizio. Il cielo diventa uno spinnaker, la bandiera del Leone garrisce, la visibilità aumenta, il vento si fa regolare, il fiocco si gonfia, il mare sale e scende, respira come la cassa toracica di un gigante, genera onde allineate che viaggiano alla tua stessa velocità. L'Adriatico è fatto per il "Maistro". D'estate è il vento dominante che ti porta a Sudest, nel Mar d'Oriente. Con lui in poppa e l'aggiunta dei remi, le galere toccavano velocità incredibili, fino a sedici nodi. Navigavano giorno e notte, arrivavano a Corfù in una settimana, quasi cento miglia al giorno. Tornare, invece, era una faticaccia. Toccava remare controvento, o aspettare per giorni una spinta di scirocco. Puntiamo a Sudovest, verso l'Isola Lunga. Allungheremo di quindici miglia ma con questo vento fa niente. Leggo su Le rotte della Serenissima di Franco Masiero una relazione di frate Felix Faber, pellegrino in viaggio per la Terrasanta nel 1483. Una notte, quando arrivò il maestrale, "per correre più forte i marinai addetti alle manovre issarono la trinchetta sopra la maestra, poi presero il telone che in certi momenti serve a riparare tutta la galea dal sole o dalla pioggia e lo sistemarono in modo che potesse prendere tutto questo vento in poppa. Con questa andatura ci si accorge appena del moto della nave. Tanto i pellegrini sottocoperta che i galeotti sul ponte (di notte non si remava), tutti dormono in quiete e in silenzio; solo due persone vegliano: chi controlla la bussola e chi governa il timone".
A Sudest di Zara ci siamo lasciati alle spalle il primo segno turchesco del viaggio. Il caravanserraglio di Vrana. Due secoli fa era frequentato dai mercanti della zona, e l'abate Fortis, nel suo Viaggio in Dalmazia, scrive con ammirazione dei suoi marmi. Oggi è abitato dal signor Petar Pelicaric, trafficante di ferramenta. L'interno è pieno di vecchie auto, trattori e lavatrici. Ci passai nel '91, dopo la rivolta dei serbi dei Knin, e mi offrirono caffè turco. Il fronte era lì vicino, sentivi i colpi di mitra. Ai tempi del turco, i veneziani sapevano l'importanza di Knin, da lì controllavano le carovane per Zara, Sebenico e Spalato. Per questo vi fecero una base e vi scolpirono il loro bravo leone. Era strano sentirsi offrire "caffè turco" in posti dove il musulmano era sempre stato l'avversario. Poi capii. L'usanza era, ed è tuttora, esibita dalle bellicose popolazioni locali come un trofeo. Accadde anche a Vienna a fine Seicento, quando gli Ottomani sconfitti fuggirono dalla città assediata e i cattolici trovarono nell'accampamento montagne di grani verdi. Era caffè da tostare. La negra bevanda degli infedeli, subito adottata, fu tagliata con virginale latte alpestre, e la mistura, più adatta al palato cristiano, fu esorcizzata col nome Kapuziner, in onore del frate cappuccino Marco d'Aviano, che aveva organizzato la difesa di Vienna. Anni dopo, qualcuno avrebbe esorcizzato pure la Mezzaluna, la luna crescente, inventando il "Croissant".
Prima di Molat incrociamo una barcone con la scritta "Supermarket". È il negozio galleggiante che batte l'arcipelago. Da queste parti trovi poche botteghe. Le isole cambiano scala, diventano piccole, anche la storia si rarefà. L'insularità aumenta, le notti diventano più stellate. Meno strade, meno paesi, minimi porticcioli e minimi collegamenti con la terraferma. Inizia la selvaggia Dalmazia mediana, una lunga parentesi prima delle grandi isole del Sud. Un arcipelago di mondi a sé. A Selve ancora oggi si incorona un "Re contadino". A Olib la servitù della gleba sopravvisse fino al 1900, quando gli abitanti, per liberarsi, comprarono l'isola dai loro padroni dopo aver risparmiato vent'anni. A Premuda, c'è il relitto della corazzata ungherese Santo Stefano, affondata dagli italiani nel 1917. Intatta, a pancia in su, a sessanta metri di profondità. In questa armada di isole calve ti orienti come un Tuareg nel deserto, da segnali impercettibili. Una roccia piatta o aguzza. Uno scoglio, una cappella, una lapide, un cipresso isolato, un basso fondale col suo colore verde vottiglia. Un muretto, una pietra con la scritta Voda, acqua. Un rudere, i resti di una torre, una locanda, una bitta per i pescatori, un solitario cimitero marino. La Dalmazia è anche fantastici cimiteri. Stanno tutti nei posti più belli, i nomi incisi dicono di genti bastarde, venute da lontano. Illiri, slavi, veneti, tedeschi, albanesi. Formazioni di cormorani, sulle isole deserte nuvole di gabbiani cuccioli imparano a volare nel fracasso degli adulti. Dominano il blu e il giallo, i colori del deserto; la dimensione carovaniera dell'andare aumenta. Vecchi nomi latini riemergono dalla toponomastica slava. Piskara, pescheria. Silba, foresta. Piniselic, penisola. Zut, giunzione. Taljoric, isola a forma di tagliere. Proversa, isola d'accesso.
Infilare il porticciolo di Zverinac con una grossa barca a vela è come mettere un filo nella cruna di un ago. Molo, attracco, negozio, locanda, banchina del traghetto: tutto lì in pochi metri. Bozo il locandiere ci ha preparato il pranzo, un pescatore combatte col motore del suo trabiccolo, spiega che "Elica màsina acqua come diavolo, ma barca xe ferma". Intanto arriva da Zara il catamarano Olea. In Dalmazia, come in Grecia, l'arrivo di un traghetto è sempre un avvenimento. Tutto il paese sta a guardare chi arriva e chi parte. Come la diligenza nel vecchio West. La scena è da vecchia Sicilia. Sbarcano bellezze da sballo e vecchie pallide nerovestite; niente vie di mezzo. Scende anche un prete, Bozo scarica pomodori e bibite traversando la passerella con una carriola. Capitan Erni riflette che queste carrette sono rimaste le ultime navi a dimensione umana. Le portacontainer e le petroliere sono ormai mondi criptati, i giganti da crociera penitenziari di lusso, i grandi traghetti discoteche viaggianti. Qui no, puoi ancora incontrare marinai e ufficiali, parlarci. E se l'incontro è possibile, anche l'attesa (del traghetto) acquista senso. Diventa parte del viaggio.
Apriamo lo spinnaker, l'andatura è grandiosa, venti miglia in due ore tra isole affusolate che hanno la stessa direzione del vento. Pare un'autostrada a due corsie, la processione delle vele è ininterrotta. Lo "spi" mette allegria, tutti ci salutano incrociandoci. Una volta, navigare di qua non era così facile. Sbucavano dal nulla i pirati uscocchi ed eri perduto. Uscocchi, i "ladroni di Segna" (Senj), "fiòj sboràdi dal Satanasso e cagàj da le buzaròne del Quarnèr". Rubavano tutto e, se non eri ricco (quindi in odor di riscatto), ti massacravano. La Serenissima li debellò solo tre secoli fa. I turchi li temevano al punto che spesso protestarono con Venezia per la sua scarsa sorveglianza nel mare di casa sua. Scende la sera, il mare - come nell'Odissea - diventa "color del vino", e le isole diventano nere, lenti capodogli in formazione. Non siamo nemmeno a un quarto di strada per Lepanto. Spunta la prima stella, la barca va col vento senza rumore, solo un leggero sciacquio sotto la chiglia. Un varco tra isole, segni marmorei di antichi approdi, un'altra stella che pulsa a oriente. Poi a Sud il grandioso faro di Sestrica segna l'ingresso nella Polinesia del Mediterraneo. Le isole Incoronate.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …