Umberto Galimberti: Linguaggio. Desiderare, sollecitare, pretendere con infinite parole vere e bugiarde

14 Settembre 2004
"L'amore parla molto, è un discorso. Si dichiara, e spesso culmina in questa dichiarazione in cui finisce: atto linguistico altamente ambiguo, quasi indecente" scrive Jean Baudrillard ne Le strategie fatali. E in effetti, dovendo esprimere l'inesprimibile, l'amore non ha parole, e perciò ne usa in gran quantità nel tentativo disperato di dare espressione a ciò che sfugge alla logica, al buonsenso, all'ordine del discorso che, pur essendo per sua natura tragicamente episodico, finge di essere completo. Si va da una frase all'altra nel tentativo di catturare l'evento, si ricorre persino al silenzio per dare all'evento maggiore intensità, poi basta un cambiamento impercettibile per sconfessare tutte le parole e deviarle dalla via che si era imboccata per dar parola all'amore. Per il solo fatto di essere un sentimento, nel linguaggio l'amore si muove un po' a vuoto, dovendo dichiararsi senza svelarsi, simulare quel che non si sa se si prova o non si prova, negarsi senza precludersi la possibilità di un recupero, esprimersi avendo cura che le parole non siano smentite dal tono con cui si pronunciano e dai gesti che le accompagnano. Nelle cose d'amore, infatti, verità e falsità intrecciano le loro equivoche danze, dove la sincerità non garantisce nulla, così come la menzogna non necessariamente inganna, perché quando a regolare il discorso è la passione, chi parla non si sente fino in fondo responsabile delle sue parole, e soprattutto non è tenuto davvero a renderne conto. Tutto questo dirotta il discorso amoroso al di fuori di qualsiasi controllo linguistico e, grazie a questa sua tipica sregolatezza, è possibile esprimere l'indicibile, rafforzare la menzogna, indebolire la verità, minimizzare il tradimento, contrastare il già detto, appianare l'equivoco, correggere il passo falso, con un cambio di livello di comunicazione, dove la contraddizione svanisce anche se la coerenza arranca. E questo perché gli amanti amano la verità, ma insieme le loro illusioni. E quando le illusioni crollano, se l'amore è una follia, ci si può sempre salvare confessando la propria irragionevolezza, lo stato di vaneggiamento, l'instabilità indotta dalla passione. Per stabilizzare l'instabile, il linguaggio dell'amore di solito ricorre al paradosso e perciò dice che sarà per sempre quel sentimento che si prova in quel momento. Per esprimere la forza e l'intensità ricorre alla durata, quando non è assolutamente vero che la durata di un sentimento dipenda dalla sua intensità. Queste considerazioni valgono anche per quelle condotte a cui molte donne ricorrono per alimentare il gioco dell'amore, differendo nel tempo la concessione di sé, senza mai ovviamente spegnere la speranza. Esse parlano il linguaggio della virtù, in realtà ciò che sta loro a cuore non è la castità, ma la durata. Ciò che esse ottengono è che, nell'attesa l'innamorato finisce per apprezzare più la caccia della preda, perché quando l'amore assorbe tempo, ma soprattutto un tempo insincero, si autodistrugge. Dissolve le qualità che avevano messo le ali alla sua immaginazione e le sostituisce con la familiarità, perché la durata temporale, che conferisce all'amicizia la sua perfezione, non garantisce l'amore dalla sua corrosione. Combinando in modo occulto conquista e sottomissione, l'amore, per riuscire nel suo intento, non può che affidarsi al linguaggio della contraddizione che riesce a combinare sollecitazione e accettazione, per cui si dice che: "L'amore rende ciechi" e nello stesso tempo che "aguzza la vista", o che l'amore è una prigione da cui non si vorrebbe mai uscire, o una malattia da cui non si vorrebbe mai guarire, una ferita che ci si augura non si rimargini mai. Questi paradossi del linguaggio dell'amore vogliono infrangere la logica, perché la logica presiede la normalità, la quotidianità, la vita di tutti i giorni, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, lo sconvolgente, e non può farlo se non infrangendo le regole della ragionevolezza. Infatti non rappresenta bene la passione l'uso di un linguaggio che dà l'idea di poterla dominare, così come non rappresenta bene l'unicità dell'evento l'impiego di parole che, nella loro ordinata successione, riconosciamo adatte per una normale conversazione. La pretesa totalizzante dell'amore e la propensione per l'eccesso fanno sì che il linguaggio dell'amore non abbia limiti nel sollecitare, nell'indurre, nel desiderare, nel pretendere. Questa mancanza di autolimitazione renderebbe l'amore una condizione parossistica ai confini dell'insostenibilità se a limitarlo non intervenisse il tempo perché, scrive Niklas Luhmann: "L'amore inevitabilmente termina e, in verità, più rapidamente che la bellezza, dunque più rapidamente che la natura. L'amore dura solo per un breve periodo e la sua fine compensa la mancanza di ogni altro limite. L'essenza stessa dell'amore, l'eccesso, è il fondamento della sua fine". Ma possiamo essere ancora più radicali e dire che la fine di un amore coincide con la sua realizzazione, che perciò deve essere il più possibile differita, se non addirittura evitata. Ciò è dovuto al fatto che l'amore detesta la ripetizione, e siccome è impossibile una creatività spinta all'eccesso, capace di produrre ogni giorno novità, si ricorre a quell'altra strategia che cerca la resistenza, gli ostacoli, gli impedimenti, perché solo così l'amore acquista durata. Qui la parola svolge un ruolo essenziale perché, creando fraintendimenti, incomprensioni ed equivoci all'unico scopo di superarli, garantisce la continuità della comunicazione. Le parole, infatti, separano e congiungono più dei corpi e, con la loro capacità di allontanare e riavvicinare, concedono all'amore il suo tempo, che è quello di esistere solo nel "non ancora". Compreso tra un inizio e una fine, dove l'entusiasmo della passione anticipa, in caso di delusione, la sofferenza che non può evitare, nell'avviare una storia d'amore la donna adotta il linguaggio dell'autocontrollo, e perciò riflette se può accettare lettere e azzardarsi a rispondere, accondiscendere a inviti o rifiutarli, stando bene attenta che l'altro, dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti, non tragga la conclusione che si possa ottenere di più. La sensibilità per le sfumature aumenta il gioco dei silenzi e dei rinvii che vogliono verificare la sincerità della passione. L'uomo invece può giocare a carte più scoperte e ricorrere persino a quei miserabili tentativi di "far colpo", presentando i propri pregi nella miglior luce possibile, senza neppure sospettare che le donne sono refrattarie a ogni forma di millanteria, perché sono per natura realiste. C'è poi chi rinuncia subito alla millanteria, soprattutto quando non ha nulla da millantare, per indossare i panni dell'incompreso con massiccia ostentazione di sofferenza e solitudine. Questa strategia, che già di per sé non favorisce l'incontro, dopo il fallimento ha come premio di consolazione che "dopo" ci si può convincere di essere davvero incompresi. E sia i millantatori sia gli incompresi non hanno ancora capito che i frutti maturi cadono spontaneamente senza dover scuotere l'albero. Quanto poi a raccoglierli, basta averlo deciso con un certo anticipo perché le regole della passione non si lasciano violare impunemente. Esse conoscono la legge del tutto/nulla, quindi castità o lussuria, mai la via di mezzo, perché quando ci si arresta dopo essere arrivati là dove non si voleva arrivare, ormai è troppo tardi, a meno che non si abbia la vocazione dell'animale da preda che si aggira perennemente inquieto fra le sbarre di una gabbia. In ordine poi alle lettere d'amore, dove il linguaggio celebra il suo trionfo, il consiglio è di guardarsi bene dal rileggerle dopo qualche anno. Il mittente deve sapere che, in quelle lettere, la passione arde senza dubbio, ma è tesa più al piacere della rappresentazione che al destinatario della missiva. Lo stesso dicasi per le lettere di commiato che sono tutte da condannare senza esitazione. Le giustificazioni addotte quali il voler risparmiare all'altro o a se stessi la sofferenza di una scena penosa, o il supporre di riuscire a esporre meglio e in modo più pacato e oggettivo le proprie ragioni sono pura e semplice viltà, o inconscio desiderio di provocare una risposta, per cui la lettera di commiato dovrebbe in realtà fungere da introduzione a un nuovo capitolo. I rapporti a due, come ognuno sa, si logorano, e quando si ha il sospetto che prima poi arriverà la fine, essa in realtà è già giunta. Nel commiato è meglio parlare con fermezza e chiarezza, fa parte del gioco. Sforzarsi di far apparire il congedo come un atto di umanità serve solo a ingannare se stessi, mai la propria vittima. In fondo la brutalità del finale rispecchia sempre l'insincerità iniziale. Tentare poi di diluire l'amore in amicizia è un'altra variante dell'insincerità, perché qualunque succedaneo dell'amore, infatti, è sempre piacevole e non v'è nulla di peggio della pietà. Eros ha nella sua faretra un'unica freccia per ogni cuore umano, e un destino comune non diventa eccezionale per il fatto di esserne colpiti personalmente. Ogni storia d'amore mette a nudo la natura della nostra anima che si affida al linguaggio per esprimere il malanimo, l'invidia, la gelosia, i baci avvelenati dall'odio, la tenerezza simulata al punto da sembrar vera, la consapevolezza di conoscere i reciproci segreti: tutti anelli di quella pesante catena che attorciglia la nostra anima nelle trame che solo il linguaggio sa tessere. Forse, dietro alla vita a due non v'è nulla, e questo nulla che si cela suscita quella curiosità infinita che fa di ognuno di noi degli instancabili cercatori di amore, quasi sempre immemori che ogni evento d'amore è sempre decretato dal cielo. Siamo infatti ospiti di un evento che ci trascende e nelle cose d'amore nulla possiamo decidere. Tutte le nostre scenate, le nostre gelosie, i nostri tradimenti, la nostra fedeltà sono puro schiamazzo intorno a qualcosa che non dipende da noi, ma dal cielo che ha decretato la natura della nostra anima, da cui dipende quella sua creatura che è amore.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …