Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. Corfù, i fantasmi di Venezia

28 Settembre 2004
La lunga notte "turca" dellAlbania finisce, a Sarande mettono i timbri d'uscita sui nostri documenti, l'ombra greca di Corfù è lì a poche miglia col forte veneziano, e già sembra di tornare a casa. Navighiamo verso l'isola giallina in una foschia color anice, il mare si riempie di nuovo, la processione interrotta ricomincia, centinaia di vele arrivano da Brindisi dopo aver saltato la Terra Incognita, il film della Santa alleanza scorre di nuovo, bandiere al vento, proveniente da Messina. Duecentoventitré galere. Quarantamila rematori. A babordo, lato di terraferma, gli ultimi, ridicoli bunker del Paese delle aquile, la boscaglia selvaggia, l'Epiro che comincia con le sue genti - leggo in un portolano del 1810 - simili agli albanesi per la loro "tendenza alla rapina". Le rovine appartate di Butrinto, la nuova Troia, il posto che Eleno figlio di Priamo ribattezzò con gli stessi nomi della patria perduta. Porta Scea, rocca di Ilio, fiumi Xanto e Simoenta. Corfù è lì, presidia le colonne d'Ercole dell'Adriatico. A due miglia soltanto. Ci prepariamo a sbarcare.
Ma arriva la bonaccia, un gran silenzio scende sul mare. Di tutte le esperienze di vela, la più sublime è l'assenza di vento. Con la tempesta combatti, con la bonaccia ti arrendi. Oggi c'è il motore, è ovvio. Ma vale la pena di restare fermi, a vele flosce, per qualche minuto, e immaginare cosa significava, per i velieri, restare per giorni davanti un porto senza poter entrare. Durante le bonacce i comandanti accendevano il sigaro, ma non per ingannare il tempo. Lo facevano perché nulla, nemmeno l'anemometro, sostituiva il fumo della sigaretta nell'indicare se c'è una minima "bava" nell'aria. Il mare respira, la vecchia Moya tace, ci tuffiamo in un'acqua senza patria, sul filo tra Grecia e Albania. Solo il Comandante non nuota. Come tutti i veri velisti è vagamente idrofobo. Resta a bordo a cucire le vecchie vele inglesi rosse di tannino. Una protezione di cuoio sul palmo della mano e via col nodo da velaio. Sembra un certosino. Ogni rammendo è una buriana alle spalle. Dice: "Finirà che ci metto la firma. O almeno la data". Scopro un grillo a bordo. Faccio un po' di conti, dev'essere montenegrino.
Sbarchi e cambia tutto. Cicale, fichi, lenzuola al vento, tintinnar di stoviglie. L'adrenalina albanese e il nervosismo italo-croato spariscono, tutto diventa accomodante, la gente passeggia sentendosi a suo agio. I vecchi sono vecchi, i bambini bambini, ciascuno si prende il suo tempo. Resiste il dialogo, cioé la democrazia. Benedetta Grecia, culla del pensiero occidentale, ma fedele alla mediterraneità, dunque alla sua capacità di capire l'Oriente. L'Italia invece ha tradito il Mare di Mezzo, la sua storia, la sua posizione unica. È diventata atlantica. Come l'Albania. In mezzo ai portici scoppia una lite spaventosa, due uomini gridano come aquile. Tema, le spese per le olimpiadi. Troppe per uno, indispensabili per l'altro. I turisti inglesi e tedeschi ammutoliscono, sono certi di veder lampeggiare i coltelli. Invece niente. L'alterco si spegne, i due si guardano, poi scoppiano a ridere. Uno dice: Egyna Tourkos, mi sono infuriato come un turco. L'altro: "Scusa, mi sono comportato come un Vlaho", un montanaro. Ecco, la Grecia è anche questo. Eraclito che scrive: "Da ciò che è in lotta nasce la più bella armonia. Tutto si realizza attraverso la discordia".
Parto per le stradine a caccia di cose veneziane, ma prima devo passare per l'Inghilterra, che dominò l'Isola dopo Venezia e la caduta di Napoleone. Alla "Reading society", una palazzina dove c'è molto del passato corfiota, il signor Andreas Papadatos, benda nera come Capitan Uncino, mi schiude stanze piene di libri, apre manoscritti su questo "scalo principalissimo favorito da esenzioni et altri privilegi", dove mercanti cristiani, ebrei e greci cercavano sicurezza dai pirati algerini prima ancora che dal Turco. Scopri che Venezia non fu solo fortezze, leoni, approdi. Fu anche amministrazione della giustizia. "Noi poveri corfioti - trovo in un altro manoscritto - siamo stati accarezzati et abbracciati dalli clarissimi rettori che pro tempora sono venuti sì dal mar come da terra et sempre li habbiamo scolpiti nel cuore". Da una finestra Papadatos mi mostra la chiesetta di San Nicola sul lungomare. "Prima di diventare americano col nome di Santa Klaus, Nicola passò di qui. Qui approdarono le sue spoglie trafugate agli ottomani. Oggi riposa a Bari. Ed è il santo più mediterraneo che ci sia".
Il castello vecchio di Corfù - il Kastro - non venne mai preso dai Turchi. Oggi sta insieme a malapena, è il più malandato dei forti veneziani nel Mediterraneo. Sul lato Nord, la darsena dove la flotta della Santa Alleanza fece l'ultima sosta tecnica prima dello scontro. Dentro, la sconfinata biblioteca dell'Archivio di Stato, dove la signora Aliki Nikiforou mi porta nei sotterranei. Un viaggio nel tempo, nove chilometri di libri allineati nelle scansie. Studenti lavorano a catalogare antichi passaporti, oltre diecimila documenti dove rileggi la storia del Mediterraneo. Passaggio di russi, turchi, tedeschi, inglesi. "Anche questo è un mondo finito - spiega Aliki - dopo l'11 settembre il passaporto non basta più, ormai servono le impronte digitali. È cominciata l'era della sicurezza globale. Non si sa a vantaggio di chi".
Nella chiesa di Spiridione, il protettore di Corfù, la gente ciabatta e chiacchiera come in un vicolo napoletano. Le porte sono tutte aperte, il vento entra, comari litigano a bassa voce, accendono candele, vanno a baciare il sarcofago nella cripta a destra dell'altare. Passare da Spiridione è un atto privo di pesantezze liturgiche. Nella sua chiesa si parla, si prende il fresco nelle ore micidiali del pomeriggio. Spiridione è un santo speciale. Narrano che quando la mummia arrivò, pure quella da Oriente, di nascosto dai Turchi cattivi, fece subito miracoli e i corfioti dimenticarono San Marco. Venezia corse ai ripari e pensò di adottarlo. Già, ma sotto il segno di quale liturgia? Cattolica o ortodossa? Per evitare rivolte popolari si decise di affidare le spoglie alla cappella privata della famiglia Bulgari, i gioiellieri che poi sarebbero passati in Italia. Come San Marco, Spiridione divenne protettore "civico". Gli ammiragli gli dedicarono lampadari d'argento e alle processioni vennero ebrei e musulmani. Era nato il santo di tutti. Strano, più vai verso la battaglia delle battaglie e più trovi luoghi dove gli dei si parlano.
"Tutte le grandi civiltà mediterranee seppero trovare questi spazi d'incontro tra fedi. Tutte tranne la nostra. Per creare un amalgama ci vuole tempo, e noi non abbiamo tempo. Siamo rovinati dalla velocità, distruggiamo la mediazione, i pensieri unici dilagano, la complessità è perduta". Sulla sua terrazza, la sera, Ana Merlin - vedova di Edwin Merlin, eroe della battaglia aerea d'Inghilterra e corfiota adottiva - versa un bicchiere di acqua e "ouzo", poi sorride: "Sa, i greci amano bere e filosofeggiare". Decolliamo verso pensieri del terzo tipo. Agios, in greco vuol dire santo, ma anche "unitario", "onnicomprensivo". Santo è colui che tutte le fedi riconoscono come tale, e infatti l'Islam lo chiama allo stesso modo, Hadji. È segnato dall'aureola, in greco Aura, che è anche energia buona, soffio vitale, quello che il mondo islamico chiama Nur. Ma il soffio non è anche vento, Anemos, dunque anima? No, meglio fermarsi, troppa anice in corpo, meglio tornare a casa, cioè in barca. Labirinto di vicoli, sui campanelli qualche nome veneziano, Mocenigo, Capodistria. Non capisci più dove sei. Sul Castello Nuovo suona la tromba del silenzio, ma sul lungomare è solo l'inizio della baraonda. A mezzanotte i riflettori illuminano ombre enormi sulla muraglia, come nel film che Orson Welles dedicò a Otello, il Moro di Venezia.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …