Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. Lepanto, sconfitta di tutti

01 Ottobre 2004
Le brume corfiote spariscono, i dodicimila remi tagliano le onde blu aviatore, il mare diventa ventoso, a poppa delle galere suonano trombe a centinaia, l'eco rimanda gli squilli da terraferma, l'arcipelago risuona come un'orchestra di fiati. Navighiamo con le navi dell'Alleanza, da oggi i tempi verso Lepanto si sincronizzano. Un corriere è partito per Venezia, con la notizia che la flotta ha lasciato Corfù verso Levante, destinazione segreta. "Dove sia andata, né quello che vada a far non si sa; per aver messo pena la forca, che non si scriva". Ma negli alti comandi scoppiano tensioni. Il capo, Don Juan, ha 23 anni ma pretende cieca devozione dai vecchi capitani di mare. È un fanatico. Quando scopre che "sopra la galea Benedetta - cipriota, dunque veneziana - erano due Gentil'huomini biastemmatori", li fa strangolare, "vedendo che non facevan conto delli suoi bandi". Risultato: nessuno bestemmia, ma volano orrende contumelie. Veneziani e spagnoli vengono alle mani, la coalizione è lì per sfaldarsi a poche miglia dal nemico. La Spagna è il Paese che ha cacciato gli ebrei nell'anno della partenza di Colombo per l'Atlantico. L'idea della limpieza della razza comincia lì, Hitler non scoprirà nulla. Anche il massacro degli Indios americani, anche l'orrore dell'Inquisizione cominciano allora. La cabala dà i brividi: 1492 come 1942, anno della conferenza di Wannsee, che deciderà l'annientamento degli ebrei. Al tempo di Lepanto, molti di costoro - gente mediterranea, sefardita - ha trovato rifugio e fortuna a Venezia, Corfù, Salonicco, Ragusa, Istanbul, Sarajevo. Il Turco è più tollerante del re cattolico.
Ma da Cipro arriva la notizia della resa ai turchi e dello squoiamento, da vivo, del governatore Bragadin, e l'orrore azzera i litigi. La galera Real di Don Juan si affianca a quella di Venier, è Juan medesimo che urla la notizia al vecchio comandante. "Ora dobbiamo combattere!". "Me par che no se pol far de manco" conviene il veneziano dalla murata. Dove andiamo? Verso quale mare? Quale mare? In greco si dice Pélagos, labirinto di isole e superfici navigabili. Oppure Thàlassa, profonda massa d'acqua. Ma anche Pòntos, mare come collegamento fra sponde. Ponte, appunto. A Lepanto dunque. Dal pulpito di prua la visione è magnifica. "Pulpito": perché un termine di chiesa? È un luogo dove comunichi con l'infinito, oppure succede che navigazione e preghiera si toccano per canali misteriosi? Che c'è di sacro nella nave di legno? Perché il soffitto della chiesa si dice "navata"? Solo perché la chiglia della barca ha una carpenteria simile? O perché spesso il sacro - come il corpo di San Marco, San Nicola o il buon Spiridione da Corfù - è uno straniero che viene dal mare? Ma se la barca è una cosa sacra, perché "carnevale" in francese diventa "car-naval", carro navale? Perché si dice "nave dei folli"? A Venezia i folli erano chiusi in una nave di fronte al Palazzo Ducale, davano di sé orrendo spettacolo. Ma la vista di quel disordine serviva forse a garantire l'esistenza dell'ordine e del Palazzo che lo rappresentava. Atena, la dea della polis - la città - aveva sul mantello la Gorgona, simbolo dell'annientamento della ragione. Nella Santa Alleanza che va, la barca-navata diventa la sintesi di tutto, sacro e profano, follia e preghiera. Partenza in barca: paradigma dei distacchi. "Partire" vuol dire "dividere", fare le parti. Nel volgare antico partire si declinava al riflessivo, si diceva "partirsi", separarsi da se stessi. Dalla propria vita di sempre. Morire, anche.
E davvero follia e preghiera coesistono sulle galere in queste ore prima del massacro. Paura, rabbia, preghiere, testamenti, un senso di cupa determinazione che invade le ciurme. Il mare greco si carica di simboli. Lontano, a babordo, file di pioppi e una foce: quella dell'Acheronte, il fiume che conduce agli Inferi. Poi è l'isola di Paxi, dove nel secondo secolo un marinaio sentì nella bonaccia una voce che diceva: "Annuncia a tutti un gran lutto, il Dio Pan è morto". Pan, l'unico dio pagano di cui si contempli la morte. Dove stiamo andando? A quale perdizione? La rotta è su Patrasso, e ancora oggi a Venezia si dice "Andare a Patrasso", quando tutto va a catafascio. Vorrà pur dire qualcosa. Mare grosso, vento forte, ripenso a San Nicola patrono dei marinai. Sta sottocoperta, ci benedice da un'icona in penombra accanto alla bottiglia del brandy. I galeotti pregano, ma quale santo? Talvolta capita davvero di non sapere "a quale santo votarsi". Un capitano corfiota mi disse che in una bufera a Gibilterra pregò davvero San Nicola. Ma poi pensò: "Oddio, e se San Spiridione si ingelosisce?". Niente mi spiegò meglio il politeismo nascosto nel culto dei santi. Non è superstizione. È che in mare il dio Uno non basta.
La sera tiriamo il fiato a Prevesa, lasciamo che le galere ci precedano verso Cefalonia. Prevesa presidia un mare chiuso, protetto da due promontori. È la stagione dei cefali, sono tutti in calore, sbattono come pazzi sotto la chiglia, quattro ci saltano in barca. Passiamo lo stretto assieme ai delfini che entrano a mangiare nei bassi fondali più pescosi e protetti della Grecia. Peschiamo un piccolo tonno, anzi una tonnarella piena di uova, cerchiamo la legna per cucinarla all'aperto. Ma anche lì, il segno della morte. Un nome terribile, Azio. Lo scontro fra Ottaviano e Cleopatra affiancata da Antonio. Avvenne lì davanti, il mare ha coperto tutto come un sudario. Anche lì si affrontarono Occidente e Oriente, anche lì fu un massacro, forse la più grande battaglia navale della storia. A vincere fu il vento. Ottaviano ebbe il maestrale in poppa e sfondò sugli egiziani. C'è ancora un monumento, mi dicono i locali, decorato con le ancore del vinto.
La barca accanto a noi è lumbard, ha il Leone sulla crocetta come la nostra. Mi chiedono dove andiamo, gli dico Lepanto. Si illuminano: "Bravi, quei cani di musulmani bisogna ammazzarli tutti". Spiego con pazienza volutamente irritante che il mio Leone non ha niente a che fare col loro, non è un leone leghista. È un leone veneziano, e Venezia non si mette agli ordini di nessuno, figurarsi di un "mona" che non distingue l'Eufrate dal Nilo. Finisce in rissa, penso ai disastri mentali che ha fatto la Fallaci con i suoi libri. Vorrei avere accanto Terzani, ma Tiziano non c'è più. Perché Lepanto è diventato un giocattolo della Destra? Semplice, perché hanno lasciato che lo diventasse. Parlare di Lepanto, per carità, non è politicamente corretto. Non si sa mai che evochi uno scontro di civiltà che è sempre esistito.
In una taverna di angiporto un avventore parla italiano e fa da interprete con altri indigeni. Ha occhi folli e un dente solo, Kostantinos si chiama. Esprime un concetto semplice: impero romano grande, impero americano schifo. Un altro gli dice: vedrai quando ci comanderanno i cinesi. Si parla di calcio, e lì arriva l'idea giusta, forse il senso del viaggio. La vittoria greca agli Europei? Eh no, signori, non è il trionfo della Grecia sul Portogallo. È molto di più: è la rivalsa del Mediterraneo sull'Atlantico. La resa dei conti, dopo secoli di umiliazioni subite da Stati nazione, colossi economici, colonialisti ladri. Spiego che a Lepanto non ha vinto nessuno. Hanno perso tutti. Ha perso il "nostro mare", e ora dobbiamo riprendercelo. Il risultato è esplosivo. Abbracci, viva l'Italia, "una faccia una razza", lancio di piatti sul pavimento. Nella ciucca le lingue del viaggio si mescolano come nell'‟Europanto”, la macedonia di parole inventata per gioco da Diego Marani. Un "gramelot" di croato, greco, inglese, turco, veneziano, ispanico, tedesco. ‟El dormi, el moja deniz, in irenikos gulf, e mi mislim quanto kronos, quanto history in istos poetische otoci passed. Capito niente? Impossibile. Qualcosa rimane. Finisce a retsina e sirtaki per soli uomini in cima al molo.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …