Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. La fine del Mediterraneo

12 Ottobre 2004
"Era torbido el mar, e tutto sangue". Legni, remi, alberi spezzati, corpi, teste, turbanti coprirono le acque. Il vento portò lontano lamenti e puzzo di macelleria. Poi, "il fuoco vinse l'oscuro della notte". La battaglia è finita, e anche il nostro viaggio. Un mazzo di fiori per i Caduti vola in mare, sull'albero sale la bandiera turca di cortesia, in omaggio allo sconfitto. Ne servirebbero tante di bandiere: qui morirono anche greci, anatolici, genovesi, sardi, spagnoli, algerini, egiziani. Morì il Mediterraneo. Il Comandante legge la preghiera del marinaio, come espressamente chiesto da Giulio Donatelli, 90 anni, il più vecchio velista di Venezia, venuto qui vent'anni fa. Anche lui sulla rotta della memoria. Durò solo poche ore l'euforia dei vincitori. Venezia non ebbe il bottino che le spettava e la Spagna, più vicina al Papa, si portò via il grosso pur avendo schierato molte meno navi. Scoppiarono liti, le discordie della vigilia si riaccesero alla grande. Venezia sputtanò i genovesi, che con una mossa sbagliata dell'ammiraglio Giandrea Doria avevano rischiato di mandare tutto all'aria. Gli spagnoli lasciarono la Serenissima a se stessa e si ributtarono sull'Atlantico in cerca d'oro. E a San Marco - come a Istanbul - iniziò una lunga, splendida decadenza. Ci furono processioni a San Marco, si levarono cori e incensi, si dipinsero pale d'altare, le rose fiorirono in autunno, trofei vennero dedicati alla Madonna del Rosario. Ma Venezia non riebbe le isole perdute. Si era sfiancata in spese non più sostenibili. Il sultano, invece, avrebbe ricostruito la flotta in un anno. "Distruggendola, i cristiani hanno tagliato la mia barba, ma io ho tagliato loro un braccio", disse alla notizia della sconfitta il Gran Visir. Voleva dire: la barba ricresce, il braccio no. Il braccio perduto era Cipro. Lepanto, battaglia che non cambiò nulla.
Quanto sangue in questo mare. Quando puntiamo su Itaca, contro un maestrale a 40 nodi, ecco profilarsi Cefalonia e l’ombra del suo massacro, gli ottomila soldati italiani sterminati dai nazisti nel '43. Sul lungomare i bar sono protetti da tendoni antivento, sembra di essere in Bretagna di fronte all'Atlantico. Dopo tante onde fatichiamo a camminare dritti, il molo si muove sotto di noi. Un'edicola, ma le notizie sui giornali sono solo un ronzio di fondo. Disordini in Iraq, Bush che grida al lupo, Berlusconi che ride. Dopo mille miglia il tempo è diventato una pulsazione lenta, il cuore di un maratoneta a riposo. Il presente è una cosa che scappa di mano, mentre i secoli tornano. Forse non abbiamo buttato fiori sui morti di Lepanto, ma sulla fine del Mediterraneo. Da allora, è stato un mare altrui. I velieri oceanici del Nord, più veloci e meno costosi delle galere, vinsero la guerra dei trasporti, ebbero il dominio delle materie prime, fondarono sullo sterminio colonie oltreoceano. E, mentre noi gridavamo "mamma li turchi!", altri ci sequestravano il mare. Presero Gibilterra, Malta, Cipro, il Canale di Suez. Poi, vennero la guerra fredda e l'emergenza terrorismo.
I cani di Itaca sono i più buoni del mondo. D'estate dormono fino al tramonto. Ansimano sdraiati nei porticati. Si muovono in gruppo, hanno stabilito la loro gerarchia senza violenza. Al capo non serve abbaiare, gli basta simulare l'aggressività, mostrare appena i denti. Sera e mattina vanno a chiedere la carità a chi parte o arriva in traghetto. Ma spesso chiedono solo compagnia. Ti ascoltano parlare. Gli basta. La sera soffia così forte che bisogna rinforzare gli ormeggi. All'aperto non c'è più nessuno. Perché Venezia si ostinò a guardare a Levante, invece di investire a Ponente? Perché dopo Lepanto si svenò per riprendere il Peloponneso? Gente capace di scoprire la Cina, come poté farsi imbottigliare nel Mediterraneo? Perché Venezia, nata sul mare, non ebbe un grande esploratore come Colombo, Caboto o Vasco de Gama? In bar chiedo un caffè turco. Mi dicono che non ne hanno. Ah già, bisogna chiedere "caffè greco", che è ovviamente la stessa cosa. Da quando, negli anni Venti, turchi e greci si espulsero a vicenda, anche le bevande subirono la semplificazione etnica. Anche le musiche. C'è una canzone diffusa in tutti i Balcani, che diventa d'amore in Grecia e di battaglia in Turchia, preghiera islamica in Bosnia e musica da ballo in Serbia, inno antiturco tra i bulgari ed epos pastorale tra gli albanesi. Ovviamente, ciascuna nazione rivendica fierissimamente il marchio d'origine e l'unicità del motivo. L'isola di Ulisse è un luogo teso, forse è il vento che l'ha resa tale. Itaca, dimessa e démodé, nostalgica, fuori dal mondo, quasi metafisica. Penso che non è cambiato niente, lo scontro di civiltà è sempre esistito. Esiste da un millennio prima dell'Islam, la religione non c'entra. È lo scontro fra Oriente e Occidente, teocrazia e democrazia. Ma se Lepanto è sulla "linea di scontro" che lo storico Braudel individua tra Vienna e Zama - cioè tra la massima avanzata degli Ottomani e la sconfitta dei Cartaginesi - allora l'Europa non è solo Occidente. Contiene anche l'Oriente. Dunque, è un ponte.
Un tango balcanico di Goran Bregovic, cantato da Rosaria Evora. Piero, il comandante-filosofo, sorseggia ouzo, ricorda che non c'è niente di nuovo sotto il sole. Persino la guerra chimica, persino quella batteriologica esistevano già allora. Turchi e cristiani si avvelenavano i pozzi, Venezia pensò di diffondere la peste nelle linee nemiche, Roma buttò sale sulle rovine di Cartagine. Ci sono sempre stati lo spionaggio, i sabotaggi, gli attentati, la crudeltà. Cos'è cambiato dunque? Quale catastrofe sta avvenendo in Iraq? Forse la fine della conoscenza reciproca, forse una peste che uccide la percezione della complessità. Non sappiamo più niente dell'altro mondo. Non abbiamo capito Sarajevo, che sta dietro l'angolo di casa, e allora come facciamo a capire Bagdad? Dobbiamo ribattezzare i Balcani "Balkanistan", per capire? Perché l'Europa non gioca un suo ruolo nel Medio Oriente? Perché il mondo che ha dato Socrate e Virgilio non sa imporsi sul pensiero unico atlantico? Perché in Israele i sefarditi, gli ebrei mediterranei capaci di capire gli arabi, contano sempre meno? Perché i fondamentalisti sauditi guadagnano terreno e il misticismo tollerante dell'Islam decade?
Ci manca Venezia e la sua anima bizantina. La Serenissima conosceva l'avversario, lo capiva. Dopo Lepanto scrisse fenomenali barzellette e canzoni satiriche sui pianti del sultano davanti alla sua armata che "xe andà in beccaria". Non era solo esorcismo, era la ri-umanizzazione del nemico col quale bisognava pur trattare. Venezia maledisse Maometto "bùsaro, inquo e can", ma non fu mai arrogante e produsse montagne di libri su usi e costumi del Turco. Alle sue delegazioni consentì di operare in sicurezza anche negli anni di guerra. "Se 'ndé dal sultan dei Turchi - dicono ancora oggi le mamme ai bambini - parlèghe in venezian. El ve ga da capir". Venezia poteva permetterselo perché stava in mezzo. Era "ambigua", così come le rimproveravano il Papa e la Spagna. Proteggeva ebrei, musulmani e armeni perché ne aveva bisogno per capire l'Oriente. Oggi il mondo gira solo verso Ponente. L'Europa ha europeizzato l'America, oggi l'America americanizza la Cina. E la Cina, americanizzata, cinesizzerà noi. Un incubo.
Il viaggio è finito, abbiamo attraversato un mare d'acqua, di storia, e anche di rimozioni. L'Italia ha dimenticato la sua storia marinara, le pulizie etniche del secolo breve, le guerre, la grande cultura del Mare di mezzo. È stato anche un viaggio tra ombre mitologiche. Ottaviano Augusto e Sebastiano Venier, Wilhelm von Tegethoff e Nazario Sauro, Diocleziano e Franz Ferdinand, i morti di Otranto e quelli inghiottiti dall'Acheronte. Porto il piccolo Libero, il figlio del comandante, a fare la pipì in cima al moletto. Escono i pescherecci nella sera. In fondo brilla una stella che non so.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …