Vittorio Zucconi: Il paese diviso dal fattore o

02 Novembre 2004
Il volto di Osama Bin Laden incombe sopra Bush e Kerry e sopra l’onore di una grande democrazia scioccata. Divora il poco tempo che manca, spazza via la strage quotidiana e continua di Bagdad, i fallimenti della guerra, gli scandali, i vaccini che non si trovano, i lavori che volano via, cancella ogni altra notizia e riporta lo sguardo della nazione là dove Bush lo avrebbe sempre voluto tenere fisso, sull’11 settembre 2001. La destra, che cominciava ad aver paura, ora strepita festosa perché venga colta l’occasione, perché Bush gridi che "Osama vuole Kerry, dunque noi dobbiamo volere il contrario" e "Osama è allineato con Eminem e con Michael Moore", come dice Bill O’Reilly, messia di tutti i "con", neo o paleo, raccolti dalla tv di Rupert Murdoch, la Fox. Tentano di resistere i giornali e le network più equilibrate, che questa mattina frenano la voglia di attribuire un’importanza decisiva al "Fattore O" e di riconoscergli il ruolo di Grande Elettore, e non sembra esserci ancora caduto l’elettore medio, che nei sondaggi resta dove è sempre stato, diviso a metà con un lieve ma costante vantaggio per Bush. E soprattutto tentano di non caderci i due principali, "W" e "JFK" che non vogliono e non possono dare l’impressione di farsi tirare la volata finale dal massacratore di Manhattan, anche se questo accadrà. Se la sera di venerdì era stata l’ora della grande emozione, ieri, sabato, è stato il giorno della grande frenata. La riflessione, la prudenza, la sensazione di essere caduti in una trappola hanno rimpiazzato lo scatto di nervi che aveva colto i professionisti della comunicazione come Andrew Sullivan, il bushista pro guerra pentito, che nel suo seguitissimo diario Internet aveva annotato con scoramento che "se gli elettori credono davvero che Osama voti per Kerry, la partita è chiusa e ancora una volta George W si conferma l’uomo più fortunato del mondo", ma raggiunge il proverbiale uomo della strada. Tocca il viaggiatore, il pendolare, le donne e gli uomini esasperati con i quali ho condiviso, proprio venerdì sera, ore di attesa nell’atrio della stazione centrale di Filadelfia, dove i treni bloccati dal solito guasto sulla linea Boston Washington avevano smesso di arrivare. Eravamo centinaia di passeggeri dispersi che alternavano gli sguardi dal tabellone ammutolito degli orari ai televisori sintonizzati su quel volto che ci sovrastava. Nessuno parlava, nessuno commentava. Tutti guardavamo allibiti e ipnotizzati l’inverosimile show di un miliardario criminale che pensa di poter condizionare la scelta del prossimo presidente americano. Il ripristino della linea ferroviaria e l’annuncio dei nostri treni sono arrivati come una doppia liberazione. Forse in ritardo, i grandi media americani come il Washington Post che giudica speranzosamente (il Post sta con Kerry) l’effetto Osama come un "wash", irrilevante, sembrano avere capito che ancora una volta l’ex mujahiddin caro alla Cia è il topo che gioca col gatto. Uno che sa manipolare i manipolatori e sa rivoltare contro il nemico americano la sua arma più potente, che non sono i cannoni ma è il dominio sull’informazione globale. "Noi continuiamo a dimenticare che Osama, prima di essere un grande criminale è un grande comunicatore, che ha studiato bene la rivoluzione khomeinista in Iran, che conosce il nostro mondo infinitamente meglio di come noi conosciamo il suo e pratica una sorta di judo mediatico, nel quale usa la massa d’urto del nemico per sbilanciarlo e farlo cadere", dice Marvin Kalb, ex autorevole giornalista televisivo con Cbs e ora professore a Harvard. Con le sue videocassette, che hanno sostituito le audiocassette di Khomeini, fissa e dirige l’attenzione dell’America nella direzione che egli vuole, anche soltanto apparendo. "Remember me?", sintetizza benissimo con un grande titolo sopra la sua faccia il sito Internet di Drudge, spregiudicato e intelligente portavoce del bushismo, credevate forse che fossi scomparso? Per l’ambiguità del messaggio che quel video trasmesso dalla tv del Qatar che lui ormai usa come altri usano tv di famiglia, l’ambasciatore americano aveva cercato invano di persuadere Al Jazeera a non trasmetterlo. Il diplomatico aveva intuito il rischio non soltanto per il suo Presidente che aveva promesso Osama "vivo o morto", ma per la dignità civile della nazione. "Sarebbe davvero grottesco se scoprissimo che alla fine il vero vincitore dei dibattiti fra Bush e Kerry è stato Osama Bin Laden" sorrideva amaro il sondaggista John Zogby, che fino a giovedì sera aveva pronosticato la vittoria di Kerry e oggi ammette che "the Osama tape" può far pendere la bilancia dalla parte di Bush. "Ma se Osama dice di votare per Kerry, deve pur sapere che la gente voterà per Bush per fargli dispetto - si domandava in una sorta di indovinello Ane Marie Cox, autrice di un blog spiritoso e seguitissimo chiamato Wonkette - e allora vuol dire che per far dispetto a Osama, dovremmo invece votare per Kerry, ma anche questo Osama deve avere calcolato, dunque dobbiamo votare per chi, per dare uno schiaffo a Bin Laden? Help!". Se la spada di Osama taglierà le incertezze, non sarà stato comunque per colpa di Bush, o Kerry, che hanno (finora) reagito responsabilmente all’insulto mostruoso rivolto all’America, con frasi di circostanza e con una riunione di emergenza che ieri mattina Bush ha voluto con il propri consiglieri elettorali e politici, dalla Rice al proprio regista, Karl Rove, per parlare di "sicurezza" e di semafori d’allarme lasciati dove erano prima del video, per dimostrare indifferenza. La decisione del suo consiglio di corte come della corte di Kerry sembra essere quella di non addentare la mela avvelenata che Bin Laden ha offerto e di ignorare o minimizzare. Bush sa di poter contare sull’effetto oggettivo della riapparizione, che viene a ricordare agli elettori il giorno di settembre nel quale divenne indiscutibilmente e all’unanimità capo della nazione. Osama è il pro memoria vivente della legittimità bushiana, sgorgata da quel cratere, non dalle schede, come lo è del suo fallimento in una guerra al terrore che ieri ha divorato altri otto marines in Iraq. Conquistare una poltrona presidenziale con imbrogli e trucchi è un’antica e sopportata tradizione di questo sistema elettorale. Ma entrare nello Studio Ovale sotto il segno di Osama sarebbe troppo per una democrazia che cerca, dalle prossime elezioni, prima che un presidente, l’onore e il ritrovato rispetto di se stessa. Il volto di Osama Bin Laden incombe sopra Bush e Kerry e sopra l’onore di una grande democrazia scioccata. Divora il poco tempo che manca, spazza via la strage quotidiana e continua di Bagdad, i fallimenti della guerra, gli scandali, i vaccini che non si trovano, i lavori che volano via, cancella ogni altra notizia e riporta lo sguardo della nazione là dove Bush lo avrebbe sempre voluto tenere fisso, sull’11 settembre 2001. La destra, che cominciava ad aver paura, ora strepita festosa perché venga colta l’occasione, perché Bush gridi che "Osama vuole Kerry, dunque noi dobbiamo volere il contrario" e "Osama è allineato con Eminem e con Michael Moore", come dice Bill O’Reilly, messia di tutti i "con", neo o paleo, raccolti dalla tv di Rupert Murdoch, la Fox. Tentano di resistere i giornali e le network più equilibrate, che questa mattina frenano la voglia di attribuire un’importanza decisiva al "Fattore O" e di riconoscergli il ruolo di Grande Elettore, e non sembra esserci ancora caduto l’elettore medio, che nei sondaggi resta dove è sempre stato, diviso a metà con un lieve ma costante vantaggio per Bush. E soprattutto tentano di non caderci i due principali, "W" e "JFK" che non vogliono e non possono dare l’impressione di farsi tirare la volata finale dal massacratore di Manhattan, anche se questo accadrà. Se la sera di venerdì era stata l’ora della grande emozione, ieri, sabato, è stato il giorno della grande frenata. La riflessione, la prudenza, la sensazione di essere caduti in una trappola hanno rimpiazzato lo scatto di nervi che aveva colto i professionisti della comunicazione come Andrew Sullivan, il bushista pro guerra pentito, che nel suo seguitissimo diario Internet aveva annotato con scoramento che "se gli elettori credono davvero che Osama voti per Kerry, la partita è chiusa e ancora una volta George W si conferma l’uomo più fortunato del mondo", ma raggiunge il proverbiale uomo della strada. Tocca il viaggiatore, il pendolare, le donne e gli uomini esasperati con i quali ho condiviso, proprio venerdì sera, ore di attesa nell’atrio della stazione centrale di Filadelfia, dove i treni bloccati dal solito guasto sulla linea Boston Washington avevano smesso di arrivare. Eravamo centinaia di passeggeri dispersi che alternavano gli sguardi dal tabellone ammutolito degli orari ai televisori sintonizzati su quel volto che ci sovrastava. Nessuno parlava, nessuno commentava. Tutti guardavamo allibiti e ipnotizzati l’inverosimile show di un miliardario criminale che pensa di poter condizionare la scelta del prossimo presidente americano. Il ripristino della linea ferroviaria e l’annuncio dei nostri treni sono arrivati come una doppia liberazione. Forse in ritardo, i grandi media americani come il Washington Post che giudica speranzosamente (il Post sta con Kerry) l’effetto Osama come un "wash", irrilevante, sembrano avere capito che ancora una volta l’ex mujahiddin caro alla Cia è il topo che gioca col gatto. Uno che sa manipolare i manipolatori e sa rivoltare contro il nemico americano la sua arma più potente, che non sono i cannoni ma è il dominio sull’informazione globale. "Noi continuiamo a dimenticare che Osama, prima di essere un grande criminale è un grande comunicatore, che ha studiato bene la rivoluzione khomeinista in Iran, che conosce il nostro mondo infinitamente meglio di come noi conosciamo il suo e pratica una sorta di judo mediatico, nel quale usa la massa d’urto del nemico per sbilanciarlo e farlo cadere", dice Marvin Kalb, ex autorevole giornalista televisivo con Cbs e ora professore a Harvard. Con le sue videocassette, che hanno sostituito le audiocassette di Khomeini, fissa e dirige l’attenzione dell’America nella direzione che egli vuole, anche soltanto apparendo. "Remember me?", sintetizza benissimo con un grande titolo sopra la sua faccia il sito Internet di Drudge, spregiudicato e intelligente portavoce del bushismo, credevate forse che fossi scomparso? Per l’ambiguità del messaggio che quel video trasmesso dalla tv del Qatar che lui ormai usa come altri usano tv di famiglia, l’ambasciatore americano aveva cercato invano di persuadere Al Jazeera a non trasmetterlo. Il diplomatico aveva intuito il rischio non soltanto per il suo Presidente che aveva promesso Osama "vivo o morto", ma per la dignità civile della nazione. "Sarebbe davvero grottesco se scoprissimo che alla fine il vero vincitore dei dibattiti fra Bush e Kerry è stato Osama Bin Laden" sorrideva amaro il sondaggista John Zogby, che fino a giovedì sera aveva pronosticato la vittoria di Kerry e oggi ammette che "the Osama tape" può far pendere la bilancia dalla parte di Bush. "Ma se Osama dice di votare per Kerry, deve pur sapere che la gente voterà per Bush per fargli dispetto - si domandava in una sorta di indovinello Ane Marie Cox, autrice di un blog spiritoso e seguitissimo chiamato Wonkette - e allora vuol dire che per far dispetto a Osama, dovremmo invece votare per Kerry, ma anche questo Osama deve avere calcolato, dunque dobbiamo votare per chi, per dare uno schiaffo a Bin Laden? Help!". Se la spada di Osama taglierà le incertezze, non sarà stato comunque per colpa di Bush, o Kerry, che hanno (finora) reagito responsabilmente all’insulto mostruoso rivolto all’America, con frasi di circostanza e con una riunione di emergenza che ieri mattina Bush ha voluto con il propri consiglieri elettorali e politici, dalla Rice al proprio regista, Karl Rove, per parlare di "sicurezza" e di semafori d’allarme lasciati dove erano prima del video, per dimostrare indifferenza. La decisione del suo consiglio di corte come della corte di Kerry sembra essere quella di non addentare la mela avvelenata che Bin Laden ha offerto e di ignorare o minimizzare. Bush sa di poter contare sull’effetto oggettivo della riapparizione, che viene a ricordare agli elettori il giorno di settembre nel quale divenne indiscutibilmente e all’unanimità capo della nazione. Osama è il pro memoria vivente della legittimità bushiana, sgorgata da quel cratere, non dalle schede, come lo è del suo fallimento in una guerra al terrore che ieri ha divorato altri otto marines in Iraq. Conquistare una poltrona presidenziale con imbrogli e trucchi è un’antica e sopportata tradizione di questo sistema elettorale. Ma entrare nello Studio Ovale sotto il segno di Osama sarebbe troppo per una democrazia che cerca, dalle prossime elezioni, prima che un presidente, l’onore e il ritrovato rispetto di se stessa.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …