Vittorio Zucconi: Analisi del voto americano. 4. Nevada: Strip tease, divorzi e slot machine, la città del peccato non ama Bush

22 Novembre 2004
"Con la vostra rielezione, Dio ha concesso all’America la grazia di una remissione dall’avanzata del paganesimo". Dalla lettera a George W. Bush al Rev. Dr. Bob Jones III. Ma il paganesimo è duro a morire. Il suono delle "trombette di Dio" come le ha chiamate il rettore della università più fondamentalista in un salmo di congratulazioni inviato al Presidente, la "Bob Jones University", arriva flebile, qui nella cacofonia del peccato. "Welcome to fabulous Las Vegas" annuncia il celebre cartello stradale con la sua grafica "anni 50" che fa tanto Frank Sinatra. Benvenuti nell’ultimo rifugio del corpo assediato dall’anima, dove le tre "G" della nuova America vincente, God, Guns and George trovano un ostacolo insormontabile nelle classiche "G" del diavolo, Gamble, Girls and Glitz. Gioco, venere e lustrini. "Sin City", la città del peccato, è l’avamposto "blu", cioè di colore democratico, che sorveglia come un Cerbero in tanga e pailettes i passi della Sierra Nevada, oltre la quale si estende quella California che per due volte consecutive ha bocciato Bush. Vegas (va chiamata così, per sembrare bene informati) sembra, unico puntino blu sulla carta politica americana tutta colorata dal rosso repubblicano, uno di quei fortini dei "soldati blu" dispersi in territorio indiano lungo i sentieri dei pionieri. Soltanto che questa volta, stanno vincendo gli indiani. Il superbo fortino del male ha eletto trionfalmente un sindaco democratico, Goodman, avvocato della mafia, con l’86 per cento di maggioranza. Ha bilanciato il voto repubblicano delle città minori, Reno, Henderson, Tahoe, e dei rancheros sparsi nel deserto ad allevare manzi e prostitute, concedendo la più striminzita delle vittorie a "W", il 50% contro il 49% e ha prodotto il senatore democratico Harry Reid che sarà il nuovo capogruppo dell’opposizione al Senato, l’anti Bush. E dunque a Vegas, dove il profumo d’incenso diventa aroma di Chanel, finiamo il nostro viaggio in questa anima profonda dell’America 2004,. Per arrivare a Las Vegas, si dovrebbe sempre atterrare di tardo pomeriggio, quando il tramonto nell’aria arida ritaglia ogni edificio con la nitidezza di un cartone animato. Più che atterrare, si precipita verso le sagome massicce degli hotel casino, seguendo il percorso che un kamikaze coprirebbe se volesse fiondarsi dentro le 5.005 stanze dell’hotel Mgm, o contro la riproduzione in scala di Manhattan nel ‟New York New York”, che ancora esibisce, intatte e toccanti, le Due Torri. Un’ipotesi remota, ma non remotissima, visto che il re degli allibratori, Tony Dicecco nella "sala sport" dell’Hotel Flamingo, mi offrirà una quota non astronomica di "100 contro uno" per puntare su un attentato di Al Qaeda entro il 2005. E chi resterebbe, per incassare la vincita? "Qualche scommettitore sopravvissuto che viene a incassare ci sarà sempre, a Las Vegas", mi risponderà Tony, con la risata catramosa del vecchio fumatore. Futuri archeologi dovranno rovistare tra le rovine di questa terra e formulare teorie per spiegare quale cataclisma cosmico, o quale tiranno demente, avessero potuto concentrare nello stesso luogo la piramide di Cheope e il ponte di Rialto, la Tour Eiffel e la Sfinge, la statua della Libertà e un ramo del lago di Como, ma per l’archeologo della politica contemporanea, l’enigma è ancora più intricato. Come può una città costruita sulla più sfrenata iniziativa privata, criminale o legale, fondata sull’individualismo assoluto del giocatore, in perenne lotta con giudici che per quattro volte hanno tentato di mettere in galera l’amato sindaco Goodman, che incassa un’immigrazione caotica di 80 mila nuovi residenti all’anno e (circa) 180 miliardi di dollari in utili di gioco pre-tasse annuali, avere votato per il "partito delle tasse", dei "regolamenti", della mano pubblica e del governo centrale forte, per "la sinistra"? Provo a domandarlo al sindaco, nel suo studio adornato da stampe e dipinti inevitabili di scene western e la risposta di questo avvocato che ha lasciato il foro per il municipio, dopo avere difeso personaggi da film come Nick "La Formica" Spilotro e il boss dei boss della mafia ebraica, Mayer Lansky, è tanto semplice quanto inattesa. "Vegas è un città ordinatissima e regolatissima, dove ogni slot machine è tarata esattamente e implacabilmente dalla commissione di sorveglianza, dove ogni giocatore alla roulette o ai dadi è costantemente sotto l’occhio elettronico di una telecamera nascosta nel soffitto e la signora di Detroit che la scorsa settimana ha vinto 7 milioni di dollari a una slot machine, può tornare in camera sua, o passeggiare sui marciapiedi alle quattro del mattino con una borsa gonfia di banconote senza aver timore di essere scippata". Come nella Mosca del socialismo reale, una verza in ogni pentola e un microfono in ogni appartamento? Goodman: "Non proprio, ma il controllo sociale è altissimo e riesce a convivere perfettamente con lo sviluppo privato, anzi, uno è condizione dell’altro. Tutti i nostri grandi alberghi hanno personale sindacalizzato e ben retribuito con assicurazione sanitaria, dalla madre di famiglia che mescola le carte del black jack al giovanotto vietnamita che parcheggia le auto, per non indurre in tentazioni". Un socialdemocratico nel West? "E poi non dimentichi mai la diga". La diga, è vero. La mamma di cemento che, a sessanta chilometri di distanza, nascosta in un orrido dantesco del fiume Colorado, da 70 anni nutre questa creatura mostruosa e fragile che senza di lei morirebbe in un giorno. Vegas, i suoi 36 milioni di visitatori, esistono soltanto grazie a quel governo federale che gli americani, e i repubblicani in prima linea, proclamano di aborrire. È il ministero dell’interno, al quale sono affidate le risorse nazionali negli Usa, che ha costruito negli anni trenta la diga che ferma il Colorado, per dare lavoro ai profughi della Grande Depressione, come all’Est sul fiume Tennessee. Dal 1937 fornisce l’elettricità che accende ogni sera 25 mila e 600 chilometri di luci al neon lungo lo Strip, la striscia dei grandi casinò. Dio, in Nevada, è lei, la Diga concepita da un repubblicano, Hoover, ma costruita dal democratico Roosevelt. E proprio come al Signore, quando le cose vanno bene, nessuno ci pensa. Si accende un altro neon, con la stessa fede di chi guarda il sole sorgere. La "Hoover Dam" è l’Onnipotente che veglia su Belzebù. L’acqua che raccoglie nel bacino artificiale e i megawatt che pompa sono la sua grazia e i dollari che sbocciano dalle 197.144 slot machine sono il frutto della vigna pagana che nutre una città inesistente nel 1931 e divenuta oggi quella con il maggior tasso di crescita fra tutti i centri urbani d’America e un milione e mezzo di abitanti. Eppure, al municipio di Vegas, l’ufficio stampa del sindaco mi ha fatto notare che l’82 per cento della popolazione della contea si dichiara "molto religiosa", più che in Texas, in Alabama, in Kansas, nella Carolinas della Bible Belt. "Per religione, qui intendono pregare per chiudere una scala buca a poker", taglia Vicky, sparecchiando la mia puntata persa. Se l’onda della religiosità neo-fon che ha appoggiato Bush mobilitando un milione e mezzo in più di elettori, quasi la metà del suo margine di maggioranza, rispetto al 2000 arriva fino a qui, sono schizzi che si asciugano in fretta sull’asfalto, come le piogge primaverili. "Quello che succede a Vegas resta a Vegas" dice l’ultima campagna pubblicitaria, nei 175 mila letti d’albergo, nei casinò, nelle cosiddette "cappelle" dove sono celebrati 355 matrimoni al giorno, sosia di Elvis che canta "Viva Las Vegas" opzionale. Anche in politica, ciò che succede a Las Vegas resta a Las Vegas? Certamente questa città a economia mista, dove l’energia statale alimenta il capitale privato e il governo possiede l’87 per cento della superficie, non può essere il modello di rivincita per i democratici contro i repubblicani. Non sarà il duello apocalittico fra i locali "per gentleman" dove l’ultima trovata è il rodeo di ragazze in minikini a cavallo di tori e il "beguinage" dell’America salmodiante, quello che deciderà se gli Stati Uniti diverranno un monocolore di destra per i prossimi decenni o se i progressisti torneranno a essere un partito nazionale e non soltanto a chiazze regionali. Dopo la sconfitta di Kerry, i democratici hanno riscoperto, con il panico dei politici trombati, che l’America aveva un’anima profonda e turbata, non soltanto un portafoglio. Che la fede conta, soprattutto nei tempi della paura e dell’insicurezza. Ma oltre Las Vegas, oltre la Sierra, si alza il profilo imponente di un uomo che ha fatto del corpo, e non dell’anima, il suo tempio. Un governatore repubblicano sposato proprio con una Kennedy, leggendario palpeggiatore, pro abortista e pro gay, fumatore di canne e straniero di nascita, quell’Arnold Schwarzenegger per il quale è già nato un movimento per emendare la costituzione e permettere a lui, austriaco di nascita, di succedere a Bush nel 2008. Se la sinistra "pagana" si affida a un senatore bigotto e la destra "cristiana" sogna un attore lascivo, per l’America del dopo Bush c’è ancora speranza.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …