Umberto Galimberti: Se il liceo chiude le porte

25 Novembre 2004
Se la scuola pensa che un adolescente non possa cambiare è meglio che chiuda i battenti, non perché sono incominciati i lavori di restauro dell’edificio ammalorato dall’allagamento, ma perché manca la ragione di base per cui professori e studenti si debbano trovare ogni giorno a scuola per dispensare e acquisire non solo istruzione, ma anche educazione e, se necessario, rieducazione. Leggendo le cronache dei giornali che hanno seguito da vicino la vicenda dell’allagamento del liceo Parini, sembra che questo principio sia venuto meno. I professori della scuola, infatti, non si sono riuniti per discutere come recuperare questi ragazzi alle regole del viver civile, ma come e per quanto tempo sospenderli dalla scuola: se per quindici giorni come prevede il regolamento scolastico, o se per un intero anno come una possibile interpretazione del regolamento forse potrebbe consentire. Il principio della punizione, che come si usa dire in questi casi deve essere "esemplare", ha messo subito fuori gioco l’ipotesi della rieducazione. Ma che significa "punire" in questo caso? Significa sospendere dalla scuola (che fino a prova contraria è l’istituzione preposta all’educazione dei giovani) chi dell’educazione forse ha più bisogno degli altri. E allora viene da pensare che tra scuola ed educazione non c’è parentela, perché, chiudendo il sillogismo, o a scuola vieni già educato o la scuola dovrà allontanarti. Che è come dire che la scuola non riconosce più nell’educazione la sua ragione d’essere, il suo compito specifico, lo scopo della sua esistenza. E a me questo pare più grave del pur gravissimo atto che ha portato alcuni studenti ad allagare l’edificio che ogni mattina frequentano per imparare a crescere. La mentalità che preferisce "punire" (leggi "allontanare dalla scuola"), invece che rimboccarsi le maniche e rieducare chi forse ne ha più bisogno, non è circoscritta alla scuola danneggiata, il liceo Parini, ma è diffusa nella gran parte degli istituti scolastici milanesi, se è vero che la preside del liceo classico Carducci ha dichiarato: "Io non voglio essere accogliente con chi ha creato disagio in un altro istituto". Sulla stessa linea sono i presidi degli altri licei milanesi: il Manzoni, il Tito Livio, il Beccaria che respingono le richieste di trasferimento perché, spiega il preside del Tito Livio-Omero: "La legge non mi obbliga ad accettare studenti che provengono dallo stesso Comune". Mentre il preside del Manzoni dichiara che: "Non sarebbero i benvenuti. I problemi si esportano e credo che i miei professori non sarebbero d’accordo". Fin qui i licei statali. Faccio personalmente una telefonata a un liceo privato cattolico che gode fama di indubbia serietà. Mi si risponde che: "Occorre prima verificare la disponibilità dei professori ad accogliere i ragazzi, che in ogni caso non devono essere figli di separati, perché i figli dei separati hanno più problemi degli altri". Porte chiuse quindi, sia nelle scuole pubbliche sia in quelle private. E mentre al Parini si discute non di educazione o di procedure di recupero ma, con toni molto accesi che dividono i consigli di classe, sull’entità della punizione, con interpellanza al ministro della Pubblica istruzione, le altre scuole dichiarano la loro indisponibilità all’accoglienza. Risultato: cari ragazzi statevene a casa. In alternativa andate all’estero perché la scuola italiana non prevede tra i suoi compiti la rieducazione di chi ha sbagliato. Apprendo sempre dai giornali che il Preside del Parini ha convocato i genitori per sapere che cosa intendono fare per i loro figli. Neanche l’ipotesi di convocare i professori per chieder loro: "Come possiamo recuperare questi ragazzi?". A questo punto mi vien da dire che l’allagamento del Parini ha danneggiato un edificio scolastico, ha messo a soqquadro l’ordinato andamento di una scuola, ma ha anche messo in evidenza l’abissale distanza che esiste tra la nostra scuola e le finalità educative, e se necessario rieducative, che la dovrebbero animare. Si può colmare questa distanza? Io penso di sì. Esistono ottimi professori che sanno parlare non solo con la classe, ma con i singoli studenti, che sanno seguirne i percorsi di vita, che non si appellano all’indolenza o alla cattiva volontà dei ragazzi, perché sanno che la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato dal legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione. Cari professori del Parini riaccogliete i vostri studenti e non lasciateli per strada esposti a percorsi a rischio. Il problema non è nella durata della loro sospensione affinché la punizione sia esemplare, ma nella vostra capacità di riaccoglierli. Non dimentichiamo che, oltre agli studenti che allagano la scuola, ce n’è un gran numero che ogni anno si uccide. Non è colpa dei professori, ma forse con qualche attenzione in più "personalizzata" anche questi suicidi si potrebbero evitare. A ricordarcelo è Freud, non certo un lassista o un buonista, che in un breve saggio del 1910 scrive: "La scuola secondaria deve fare qualcosa di più che evitare di spingere i giovani al suicidio; essa deve creare in loro il piacere di vivere e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i legami con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l’interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo. Non è questa l’occasione per fare una critica della scuola secondaria nella sua attuale struttura: mi è tuttavia forse consentito di mettere l’accento su un singolo punto. La Scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità, propria della vita; non deve voler essere più che un gioco di vita". Ultima considerazione. I giornali dovrebbero evitare di chiamare "vandali" dei ragazzi che hanno compiuto un "atto" vandalico, perché non si deve mai far coincidere l’essere di una persona con un suo atto, per quanto esecrabile esso sia. Perché in questo modo si nega a quella persona la possibilità di un ravvedimento, le si vanifica l’intenzione di cambiamento, le si toglie la speranza, la si inchioda al suo passato, e così facendo le si proibisce il futuro. Anche in questo caso nulla di educativo.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …