Vittorio Zucconi: Il lato oscuro della democrazia

29 Novembre 2004
C’è chi benedice la televisione, non ancora del tutto deficiente, per avere smascherato e fermato Joe McCarthy 50 anni or sono, con le sue 187 ore di implacabile diretta. E dunque c’è chi la maledice, per avere fermato prematuramente la sua bonifica anticomunista. C’è chi ringrazia il presidente in carica nel 1954, il generale Dwight "Ike" Eisenhower che lo condannò alla morte civile quando McCarthy osò attaccare l’esercito e, naturalmente, nella nuova egemonia politica della destra, l’armata dei revisionisti lo rimpiange al grido di "avevamo ragione noi". Ma mezzo secolo dopo la fine della febbre maccartista, la domanda chiave sollevata da questo personaggio tragico, grottesco e insieme effimero rimane senza risposta e di perfetta attualità: è possibile proteggere una democrazia dai nemici reali del momento senza compromettere l’organismo stesso che si vuole difendere? L’esistenza di una minaccia reale, il comunismo sovietico allora, il terrorismo islamico oggi, autorizza e assolve la paranoia del "comunista sotto ogni letto" e del "terrorista in ogni soffitta"? Il dilemma storico diventa dilemma di attualità, vivissimo. Bloccare l’insidia della malattia, senza distruggere, con la cura, l’organismo che si vuole difendere. La breve parabola politica di questo avvocaticchio di provincia, poi insignificante senatore del Wisconsin, che fino al 1950 era conosciuto dai colleghi della Camera alta soltanto come un pubblico alcolista e come un omosessuale segreto, non propone una risposta rassicurante. Ci dice che, nella dialettica continua tra i geni e gli antigeni che dormono nel corpo di una democrazia istantanea come quella americana, se la minaccia esterna al nostro way of life, alla nostra "civiltà", è abbastanza violenta, i fusibili nervosi saltano e i profittatori dell’ansia prosperano. McCarthy non inventò la "minaccia rossa", che da Klaus Fuchs, la talpa di Stalin nel progetto Manhattan, ai coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, oggi riconosciuti come spie effettive del Cremlino, scavava nelle viscere dell’ex alleato. McCarthy inventò la forma patologica della risposta all’insidia, inventò il maccartismo. Egli raccolse e intrecciò e rese incandescenti, i fili sparsi di quel culto del "demonio" che il puritanesimo dei padri pellegrini aveva importato sulle coste del New England nel XVII secolo. E se nessun malcapitato fu appeso ai rami degli alberi di Salem, come nel 1692, l’epurazione fu aspra e indirettamente violenta. Centosettanta cittadini furono incarcerati per "spionaggio" e liberati dopo lo scoppio della bolla. Diecimila persone, nel mondo della cultura, della pubblica amministrazione, delle forze armate, persero il lavoro e furono blacklisted, messe al bando dalla società civile e dalle loro professioni, secondo la più accurata ricerca, condotta dal professor Ralph Brown della facoltà di giurisprudenza di Yale. Le vite devastate da sospetti, delazioni, invidie che si traducevano in denunce, furono un esercito e ci fu chi non resse, sucidandosi. La confusione paranoide tra dissenso e sovversione aveva già fatto la fortuna di politicanti come Richard Nixon, colui che aveva stanato "l’agente sovietico" Alger Hiss nel Dipartimento di Stato e anni dopo, come presidente, creò liste di nemici politici da investigare, distruggere e denunciare al fisco. Chiunque brandisse la spada dell’anticomunismo si garantiva immediata e immensa popolarità, come oggi chi sventola la bandiera della guerra al terrore. Erano gli anni nei quali ogni giorno, nelle scuole elementari, i bambini venivano addestrati a difendersi da un attacco nucleare, accovacciandosi sotto i banchi, gli speculatori offrivano a padri ansiosi ridicoli bunker anti atomici da scavare nel cortile di casa e ogni edificio pubblico si dotava di inutili rifugi nelle cantine. Joseph McCarthy irruppe sul palcoscenico il 9 febbraio del 1950, pronunciando un discorsetto al "Circolo delle Donne Repubblicane" in West Virginia. Davanti alle signore allibite, agitò un foglio sul quale, disse, erano i nomi di 205 funzionari del Dipartimento di Stato, venduti ai Russi. L’accusa era spaventosa e, sebbene due giorni dopo, in un secondo discorso tenuto nello Utah, McCarthy, forse tornato momentaneamente sobrio dal suo stato di permanente stupore alcolico, avesse già ridotto a 57 il numero, un quarto, la denuncia lo proiettò alla testa della Commissione per le Attività Antiamericane (Huac). Con un ammirevole quanto elementare senso della "politica spettacolo" Joe puntò il mirino laddove l’effetto sarebbe stato più sensazionale, verso Hollywood, denunciando l’infiltrazione dei comunisti nella grande industria della persuasione popolare, il cinema. Con la collaborazione di un futuro presidente, allora segretario del sindacato attori, Ronald Reagan, il raccolto a Hollywood fu abbondante. Nomi celebri entrarono nella famigerata "lista nera" dei filocomunisti da ostracizzare come "agenti sovietici", quelle "esagerazioni" che persino i revisionisti della nuova destra sono costretti ad ammettere. Charlie Chaplin e Lee J. Cobb, Larry Parker ed Elia Kazan, che accettò di "fare nomi". Persino Bertolt Brecht depose davanti alla commissione. Trenta mila libri furono individuati ed eliminati dalle biblioteche all’estero finanziate dall’Usia e dall’Usis, perché "filocomunisti" e simbolicamente bruciati nel crucible, nel crogiuolo della purga maccarthista, secondo il titolo del famoso dramma allegorico che Arthur Miller scrisse, ricordando i processi di Salem. Alla sua corte, accorsero giovani ambiziosi, come Robert Kennedy, ansiosi di vidimare il certificato di "anticomunismo" prima di lanciarsi in carriera. Ma Joe McCarthy era soltanto il burattino. Il vero burattinaio era J. Edgar Hoover, il direttore dello Fbi, che gli forniva le liste e le piste, pilotandolo per avanzare le proprie trame di potere. Hoover, il guardiano della moralità americana che segretamente amava travestirsi da ballerina classica in collant e tutù di pizzo per intrattenersi con il proprio assistente, controllava e ricattava McCarthy, del quale ben conosceva i vizi e le frequentazioni di locali riservatissimi per gay, come il "Cavallino Bianco" di Milwaukee. E mentre Joe tuonava contro "comunisti e pervertiti", anche allora associati nella doppia depravazione politica e morale, il suo braccio destro, l’avvocato Roy Cohn, destinato a morire di Aids, amoreggiava con un bel ragazzo biondo, David Schine, che il senatore raccomandò perché gli fosse evitato l’invio al fronte. L’esercito rifiutò la "raccomandazione", il senatore cercò di vendicarsi chiamando alla sbarra ufficiali, soldati e addirittura un capitano dentista della Us Army, accusati di simpatie comuniste. Fu la sua ultima follia. Eisenhower costrinse Nixon, suo vice e impeccabile campione della crociata anti-rossi, a denunciare McCarthy. Fu prima censurato dal Senato a schiacciante maggioranza nella primavera del ‘54 e poi deposto, a dicembre. Morirà tre anni dopo, a 47 anni, nell’ospedale navale in un sobborgo di Washington, con il fegato distrutto dalla cirrosi, o forse assassinato, come scriverà un biografo nostalgico. L’America, liberata da McCarthy, avrebbe dovuto attendere ancora un generazione per vedere sconfitto e distrutto il nemico sovietico, senza tradire se stessa, come il senatore delle streghe rosse aveva rischiato di fare.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …