Umberto Galimberti: Le madri da accudire

03 Dicembre 2004
Ancora una madre che uccide la figlia. Ancora l’eterno dramma che si ripete. Perché il mistero della maternità, che noi siamo soliti edulcorare con i buoni sentimenti, è un abisso terribile, dove l’amore s’intreccia col dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del giorno col buio della notte, dove tutte le cose sono incatenate, avvinghiate, intrecciate, innamorate, senza una visibile distinzione, perché, come l’amore e la crudeltà della natura, così l’abisso della maternità genera la vita e, nella disperazione, la toglie. Approfondiamolo questo mistero della maternità, segreta custodia del potere assoluto: il potere di vita e di morte, che il re ha sempre invidiato alla donna che genera, e in mille modi ha cercato di far suo. Non sigilliamo l’evento nella sindrome depressiva, non releghiamolo subito nella psicopatologia. Non ci serve porlo ai limiti dell’umano, per procedere nella nostra acquietante persuasione che per natura le madri amano i figli. L’amore, che è toglimento di morte (a-mors), confina con la morte, e sottilissimo è il margine che vieta di oltrepassare il limite che fa di uno sguardo sereno uno sguardo tragico. Per questo, quando un figlio nasce e cresce, bisogna accudire le madri. Troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il gesto truce. Non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l’una e l’altro per cercare quell’atmosfera di protezione che scalda il cuore e, col calore che genera, tiene separato l’amore dall’odio. Lavoro arduo che tutti coloro che amano conoscono in quella sottile esperienza dove incerto è il confine tra un abbraccio che accoglie e un abbraccio che avvinghia e strozza. La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura. Dove a essere accudito, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l’ambivalenza delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele. Un invito ai padri: tutelate la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo nome: "Accudimento", per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …