Vittorio Zucconi: Saigon, il volo del ritorno

13 Dicembre 2004
La storia che finì con un Boeing, con un Boeing ricomincia. Gli aerei di quella corporation che ararono l’Indocina con le loro bombe, che trasportarono milioni di giovani americani attraverso il Pacifico, che chiusero nell’ultimo, ignominioso esodo quindici anni di tragedie, tornano per la prima volta a volare sul Vietnam con i colori americani, in pace. Poco meno di trent’anni, una generazione, passano tra l’ultimo Boeing, il 747 della Pan Am che il 24 aprile 1975 staccò il carrello dall’aeroporto di Saigon sovraccarico di profughi, e il primo Boeing, sempre un 747 con i colori della United Airlines che oggi, giovedì 9 dicembre, partirà da San Francisco per tornare nella stessa città che ha cambiato nome, Ho Chi Minh. Questo sarà carico di turisti, di commercianti e dei figli di coloro che fuggirono con i panni che avevano indosso e una borsa a testa, al massimo. Dai "Boat people" ai "Boeing people", un altro capitolo di scelleratezze scritte dalle guerre ideologiche è stato chiuso e quello nuovo non potrà essere peggiore. È giusto che sia un aereo della Boeing a ricucire quello che sembrò irrimediabilmente strappato dai 58 mila caduti americani e dai due milioni di morti vietnamiti. Se mai ci fu un conflitto segnato e simboleggiato da aerei, quello fu la guerra dei quindici anni in Indocina, tra cacciabombardieri Phantom F4, elicotteri Huey, battere di pale nell’ultima fuga dell’ambasciatore da Saigon, ma soprattutto B-52 fabbricati in Kansas dalla Boeing. Nulla come la scossa sismica provocata dalle bombe da una tonnellata ciascuna sganciate a grappoli dai "Buff" come li chiamavano i loro piloti, i "Big Ugly Fat Fucker", il grande, grasso, brutto fottuto, resta nella memoria di chi l’abbia sentita anche a chilometri di distanza. Attorno ai Boeing B-52, a quelli abbattuti e ai crateri ancora visibili aperti nella terra soffice del Mekong, alle tane scavate per sopravvivere, ai sandali fatti con la gomma delle ruote recuperate, è nato il mito della resistenza vietnamita. I bambini vendono ai turisti modelli di aeroplani americani fabbricati con l’alluminio della lattine di Coca e di Pepsi. Ma il rombo che oggi gli abitanti di quella Ho Chi Minh che tutti gli abitanti chiamano Saigon (il nome è stato lasciato al quartiere centrale, per salvare la faccia al Partito Comunista, unico e padrone) è il ronzio seducente del milione e trecento mila vietnamiti di nascita o di origine che vivono negli Stati Uniti, principalmente in California e potrebbero riempire i jumbo jet della United, linea aerea in amministrazione controllata per insolvenza, nel nuovo tragitto San Francisco-Saigon, scalo a Hong Kong. A quella stessa, importante comunità vietnamita negli Stati Uniti, che conta anche senza avere il potere di ricatto politico dei cubani di Miami, i dirigenti del regime di Hanoi guardano per stimolare le relazioni commerciali, investire, visitare, ricostruire, anche viaggiando, quel tessuto di rapporti familiari che la politica, l’ideologia, la guerra e poi la catastrofe umana degli anni 70 e dei 400 mila profughi usciti in mare allo sbaraglio, avevano distrutto. Dopo anni di ostinazione purista e quindi di dirigismo economico, naufragati nella grande crisi finanziaria asiatica degli anni Novanta, ora il Partito sembra di nuovo orientato verso una formula cinese, di liberismo sostanziale, dietro la severa vernice leninista. E il trattato aereo fra Washington e Hanoi firmato lo scorso anno, che ha partorito il primo collegamento diretto Usa-Vietnam di oggi, è una delle prove, come lo è l’ordine per dieci nuovi Airbus 321, firmato ieri. Grazie alla Boeing e alla United, dunque, la "sindrome del Vietnam" è superata davvero, in Vietnam. Rispetto del dissenso, pluralismo politico, libere elezioni, esportazione della democrazia non sembrano essere un problema né sollevare obbiezioni, laddove la cenere di altre avventure militari è spenta e fredda. Non ci furono proteste quando i due governi riaprirono i rapporti diplomatici, mossi da quel realismo pragmatico che accetta le rispettive diversità senza voler imporre i propri modelli. Il primo ambasciatore americano fu un reduce, un ex combattente. Non si agitarono neppure i pochi e ormai invecchiati veterani che ancora accusano Hanoi di nascondere i resti di soldati caduti per ricattare Washington, un’accusa che ormai ha ancora senso soltanto per le famiglie di chi non si rassegna a non sapere dove è sepolto un marito o un padre. E non si è offeso neppure il signor Topping, Al Topping, che fu l’ultimo caposcalo della Pan Am in quel 1975 quando dovette, racconta lui, adottare, legalmente e formalmente, in un giorno di tourbillion burocratico e di ricche mance, tutti i 300 impiegati della compagnia a Saigon per portarli in salvo sull’ultimo Boeing, sospettando che i Nordvietnamiti ormai padroni della città li avrebbero giustiziati o deportati come "collaborazionisti". Il 747 organizzato da Topping aveva 375 posti. Decollò con 463 persone a bordo, in piedi, sdraiate, ammucchiate l’una sulle ginocchia dell’altro, rischiando di non farcela, di cadere come precipitarono altri jet sovraccarichi o di essere abbattuto, come il capo scalo temeva, dai mitraglieri dei vincitori comunisti. Si portò via il dolore di non aver potuto caricare quelle migliaia di "bui doi", di "polvere di vita", terriccio, come sono chiamati con disprezzo in vietnamita i figli illegittimi lasciati dagli americani e che hanno aspettato 30 anni per rivedere un pezzo della loro mezza anima americana tornare nel luogo dal quale l’America scappò. Chissà che proprio un Boeing non gli riporti un giorno quel padre che un altro Boeing si portò via.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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