Michele Serra: La fluidità e il futuro rubato

14 Dicembre 2004
La condizione precaria, a differenza della condizione operaia, non è stata ancora scritta. Non ha voce, come se la diaspora della fabbrica, e la dispersione dei salariati, fosse una specie di "soluzione finale" della gran questione dello sfruttamento. Milioni di solitudini non fanno una coscienza di classe, non formano un linguaggio comune, non fanno sindacato: colui o coloro che riusciranno nell’impresa (e forse accadrà, prima o poi) di dare identità politica ai precari, avranno cambiato la storia sociale dell’Occidente postindustriale. Anche il giornalismo, in materia, non sa bene che pesci pigliare. Una volta il cronista andava davanti ai cancelli, domandava, ascoltava, fiutava il vento e gli umori delle tute blu. Se le fonti ufficiali erano il sindacato e l’azienda, quelle ufficiose gravitavano tutte attorno al grande mondo della fabbrica o del dopolavoro. Inchieste memorabili sulla Fiat degli anni caldi sono state scritte scarpinando attorno agli immensi perimetri di Mirafiori e del Lingotto, o raggiungendo i delegati, a notte tarda, nelle birrerie torinesi dove la sinistra discuteva il da farsi. Oggi non è più attorno alla macchina, tra quei clamori, quelle durezze industriali, che si fanno e si disfano i destini del lavoro, e delle vite di chi lavora. Tutto avviene lungo itinerari individuali separati, nascosti, impalpabili, più avventurosi (quando va bene) ma anche più alienanti (quando va male) della catena. Si registrano a volte i casi anomali, i record quasi grotteschi di instabilità e indeterminatezza, il trentenne che ha già cambiato trenta lavori con maturazione professionale pari a zero, quello che in dieci anni di contratti a termine ha accumulato solo una settimana di ferie, e contributi quanti ne bastano per prepararsi a una pensione inesistente. Ma è come raccogliere le briciole per cercare di indovinare come è fatta la torta. E dire che le nuove condizioni del lavoro hanno creato, oltre a qualche nuova opportunità e qualche nuova mentalità mille miglia distante dall’ossessione del posto fisso, indicibili malesseri economici e forse soprattutto esistenziali, riassumibili in quella veridica formula, "mancanza di futuro", che a dirla meglio e a capirla meglio è un ben fosco riassunto dello stato delle cose. "Fluidità" può voler dire tante cose, dinamismo e libertà di movimento per quei pochi che sanno fare arte della mancanza di basi solide, per la minoranza che ce la fa. Ma per gli altri, per la grande massa dei precari, fluidità vuol dire letteralmente sentire il terreno sotto i piedi che si fa inconsistente, vuol dire impossibilità di programmarsi una vita, vuol dire ansia, insicurezza, e appunto: precarietà. Forse non si è ragionato abbastanza su questa parola, che pure è spietatamente negativa (per questo si cercano e ahimé si trovano pietosi e anche ridicoli eufemismi, tra i quali il cococò rimarrà in eterno il più maldestro). Ovvio che nessuno vorrebbe una vita precaria, un lavoro precario, una casa precaria, un futuro precario. Che il mito del posto fisso arrivasse a bloccare, come una morchia collosa, la fantasia e le prospettive di un paese invecchiato, è anche verosimile. Che al posto (e all’opposto) di quella fissità rischi di nascere una società dalle identità sociali inconsistenti, dal potere d’acquisto minimo, dall’incomunicabile angoscia individuale che non diventa mai risposta collettiva, è però sotto gli occhi di tutti.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …