Umberto Galimberti: Anonimi assassini

17 Dicembre 2004
"Ho ucciso per sentirmi importante" ha dichiarato l’infermiera di Lecco che ha confessato di aver posto tragicamente fine alla vita di sei pazienti. Prendiamola sul serio questa dichiarazione per folle o insensata che sia perché, sia pure a livelli di onnipotenza paranoica, dice a quali gesti può portare l’insignificanza dell’anonimato, il mancato riconoscimento, la persuasione che non si ha identità se nessuno ci chiama per nome. Lecco è la città dove tre settimane fa è stato ucciso il povero benzinaio a opera di due ragazzi del luogo che forse non volevano solo soldi, ma anche protagonismo. Un protagonismo che non avrebbero mai potuto vantare di fronte agli amici, ma di fronte a se stessi sì, come spesso capita ai giovani che compiono azioni al limite della vita per sentirsi più forti degli altri, perché capaci di gesti che agli altri fanno tremare i polsi. Ancora una volta viene in primo piano quel bisogno di uscire dall’anonimato, per rivendicare la propria esistenza, oltre quella soglia dell’insignificanza in cui molti si sentono affogare. Se una correlazione profonda e inosservata esiste tra questi due episodi all’apparenza tra loro irrelati, e i molti altri dove si stupra, si fa branco, si uccide senza un’apparente plausibile ragione e forse senza neppure una vera premeditazione, allora dobbiamo chiederci se l’anonimato in cui ci affoga questa società senza più legami affettivi e sociali, dove a segnalarci agli altri sono i nostri ruoli e non più il nostro nome, dove i nostri volti non sono più riconoscibili perché a individuarci sono solo le funzioni che svolgiamo, e fuori da quell’ambito nessuno più ci chiama, ci telefona, ci invita, allora il bisogno di esistere può assumere quelle forme estreme di rivendicazione della propria identità, dove si può giocare anche con la morte, perché la propria vita, che a nessuno interessa, è già avvertita come non esistenza, qualcosa di già imparentato con la morte. Anonimato in una società senza legami affettivi, a partire da quel primo nucleo dell’affettività che si chiama famiglia, dove i figli chiedono attenzione, e l’attenzione chiede tempo da dedicare a loro. Non un tempo-qualità, evocato a propria giustificazione da genitori indaffarati e superimpegnati perché a loro volta assetati dal bisogno di riconoscimento sociale, ma un tempo-quantità, che consenta ai bambini di avere quell’attenzione significativa e interessata, indispensabile per costruire dentro di sé un’identità riconosciuta che, da adulti, eviterà loro quel bisogno spasmodico di attenzione, quella forma incontenibile di protagonismo, che l’infermiera di Lecco ha addotto come motivazione profonda e compulsiva del suo reiterato gesto omicida. Orgogliosi della nostra cultura dell’individuo, di cui rivendichiamo i diritti di libertà che la distinguono rispetto ad altre culture, dimentichiamo che è proprio la formazione dell’individuo ciò che noi trascuriamo quando non ci diamo cura di creare quei legami affettivi senza i quali andremo a cercare la nostra identità, non trovandola dentro di noi, in quei gesti capaci di darci per qualche giorno quell’attenzione e quel protagonismo a cui la cultura dell’individuo spasmodicamente spinge, senza creare le condizioni perché non si manifesti in modo catastrofico. Non releghiamo immediatamente la condotta dell’infermiera di Lecco in qualche sindrome psicopatologica per far salva l’innocenza delle nostre condotte. E così dimentichiamo che la psicopatologia è un evento del nostro cervello solo perché il nostro cervello elabora il mondo-ambiente in cui ci è capitato di nascere e crescere. Di questo mondo-ambiente, non possiamo negarlo, siamo tutti responsabili, perché siamo noi a crearlo favorevole o sfavorevole alla costruzione di identità che non inseguano spasmodicamente per tutta la vita quel bisogno del riconoscimento di cui forse a suo tempo sono state deprivate. Le situazioni-limite oltrepassate le quali è subito tragedia, non sono, come è comodo pensare, raptus di follia che non esistono, ma l’ultimo passo di un lungo percorso che, nel caso dell’infermiera di Lecco, sembra si sia nutrito di sceneggiati televisivi e di letture che rispondevano al suo bisogno di protagonismo e alla sua sete di riconoscimento. Sottolineava pagine, annotava riflessioni per riempire quel vuoto di identità che rifiutava di affogare nell’insignificanza dell’anonimato di cui la nostra società è grande e insieme inconsapevole dispensatrice. In questo contesto, che qualche riflessione dovrebbe suscitarci, c’è chi rifiuta di affogare da solo, o chi, prima di affogare, lancia un urlo di protagonismo, in modo che qualcuno, forse per la prima volta, possa avvertire la sua esistenza e concedergli, sia pure nelle modalità tragiche di non vivere o di non morire senza nome.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …