Vittorio Zucconi: La sfida del secondo bush

20 Gennaio 2005
Duecento e quattro anni dopo il giuramento di Thomas Jefferson, il primo presidente americano a essere incoronato a Washington nel cantiere di un Campidoglio in costruzione, George Walker Bush poserà questa mattina la mano sullla Bibbia e chiederà, come tutti i suoi predecessori, l´aiuto di Dio, "so help me God", per governare gli Stati Uniti d´America fino al 2009. Da questa cifra, da due secoli e più di democrazia elettorale ininterrotta da guerre, da maremoti migratori, da aggressioni esterne, da assassini politici e da scandali devastanti, è obbligatorio partire quando un presidente, nuovo o rieletto che sia, sale all´ombra del cupolone candido, sul terreno del Congresso dove va per riaffermare con quel gesto la primazia originaria del potere legislativo e federalista, sul potere esecutivo centrale.
La inauguration è, prima di essere la incoronazione di un vincitore, il Te Deum di una democrazia che celebra se stessa e la propria capacità di sopravvivere senza smarrirsi, un rito mai intenso come in questa prima cerimonia dopo quell´11 settembre che per un attimo parve mettere in discussione l´esistenza e la natura degli Stati Uniti. La festa dell´insediamento non è dunque l´incoronazione di un uomo, di un Borbone o di un Windsor, per quanti balli, ricevimenti, gala, abiti lunghi e soldi (40 milioni di dollari questa volta, un record) siano bruciati. È, soprattutto quest´anno, un Thanksgiving politico, la festa del Ringraziamento di una nazione che persevera e prospera. E in momenti come questo ritrova e rinnova la propria identità, che non è un´identità in negativo, rabbiosamente etnica, confessionale o xenofoba, ma costituzionale. Collocare nella prospettiva storica l´insediamento è sempre una necessità per chi, nel mondo, assiste al rito di questa "monarchia elettiva". Ma lo è specialmente quando al (temporaneo) trono americano sale, o risale, un personaggio controverso come George W. Bush che incarna, secondo il sondaggio internazionale dell´istituto demoscopico Pew, tutto ciò che l´Europa Occidentale, la galassia islamica, la gran parte dell´Asia (meno l´India) e l´America Latina, detestano degli Stati Uniti. Mai, da quando esistono le ricerche d´opinione, neppure nei decenni dell´antiamericanismo pilotato dal Cremlino, il prestigio internazionale di questo Paese e del suo Presidente era stato così basso e l´impopolarità dell´America tanto elevata. È un´antipatia trasversale e transideologica generata inizialmente dalla figura dello stesso "W", dicono i ricercatori, ma che sta inesorabilmente tracimando da lui alla nazione che questa volta lo ha davvero eletto. Dunque il mito di un Bush "usurpatore", escrescenza estranea al corpo americano, che per quattro anni ha sostenuto coloro che ancora distinguevano fra lui e gli Usa cade oggi, nel bene e nel male. La identificazione fra il "paese reale" e il "paese legale" è avvenuta e sarà sancita in questa capitale trasformata in un campo di Marte, tra incubi e succubi del terrorismo.
Rammentare la transitorietà delle persone e la permanenza della democrazia serve oggi, come se ci fosse bisogno di abbassare la temperatura nel gelo di una Washington artica e dunque fausta per Bush che ricorda il freddo che accolse il primo insediamento del suo idolo Reagan, a raffreddare tanto l´esaltazione dei supporter quanto la rabbia impotente dei delusi. Ai primi, che hanno salutato la vittoria di Bush come l´apoteosi e la "ratificazione" (sono parole sue) della guerra in Iraq, dell´unilateralismo interventista, delle farneticazioni neo conservatrici, dello sprezzo per la Vecchia Europa e per l´Onu, delle orribili bugie sulle armi, va ricordato che in democrazia una vittoria elettorale non fa una verità, fa soltanto un governo. E neppure otto anni, il massimo che la Costituzione conceda, possono davvero rivoluzionare e ribaltare una nazione troppo massiccia, troppo articolata, troppo poco statalista, per essere rivoltata da un governo.
Ai secondi, agli orfani inconsolabili della mitica "altra America" ancora impigliati nel culto dei morti, nell´adorazione di una sinistra che non esiste più nei leader e nella base elettorale, va seccamente ripetuto il brusco monito che il numero due della commissione Esteri del Senato, il democratico Joe Biden, tutto meno che un fan di Bush, ha lanciato in questi giorni, rivolto all´Europa: "Get over it! Get over it!", fatevela passare e rassegnatevi, George W è il legittimo Presidente e con lui noi dovremo trattare e vedercela per quattro anni, in questo spicchio di mondo atlantico euroamericani che sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più periferico e marginale, quanto più aumenta la sua frammentazione.
Ascolteremo oggi con quali formule, comincerà il secondo atto, il "Bush Part II" (o III, se si conta anche il quadriennio di suo padre) ma lo ascolteremo con lo scetticismo che deve accompagnare questi discorsi di investitura, scritti da retori e sceneggiatori di professione. L´esperienza dello stesso Bush, che aveva promesso nel discorso del 2001 il contrario di quello che poi avrebbe fatto, ci insegna che estrapolare una presidenza dalle parole di un discorso è un esercizio di piaggeria o di antipatia, destinato a fallire quando la retorica incontra la realtà del mondo. L´ottimismo pacifista di un Wilson, l´isolazionismo di un Roosevelt, come il non interventismo di un Bush, vengono demoliti in pochi minuti dai cannoni della Krupp, dai siluri giapponesi a Pearl Harbor o dagli assassini delle Torri Gemelle. Già è arduo tracciare bilanci consuntivi sulle presidenze americane, come dimostrano le continue revisioni storiche. Tracciare un bilancio preventivo è impossibile, quando non è semplicemente disonesto.
Ma una cosa si può dire con certezza. Questo cinquantanovenne ingrigito e, come tutti, invecchiato dalla responsabilità immane della presidenza, non è lo stesso uomo che apparve quattro anni fa, sulla balconata del Campidoglio, come un personaggio smarrito e burbanzoso, in cerca d´autore, vestito d´un abito che "pareva stargli troppo largo, passato da un fratello maggiore", come notò David Ignatius sul ‟Washington Post”. Questa mattina, l´immancabile abito blu a un petto con bandierina all´occhiello che indosserà sotto il cappotto fumo di Londra - se Laura lo convincerà a indossarlo superando il machismo texano nonostante la stufetta nascosta ai piedi sotto la balaustra - lo vestirà perfettamente, perché il presidente "accidentale" del 2001 è divenuto il presidente reale di questo 2005. È divenuto il comandante della nave America, piaccia o no la rotta che la nave sta seguendo. Altri, dopo di lui, cambieranno navigazione e dunque non si esaltino troppo i cortigiani del bushismo, né si deprimano troppo gli antipatizzanti. Ancora una volta, come ha sempre fatto, l´America spiazzerà amici e avversari, se non addirittura con il secondo Bush, certamente con chi verrà dopo, nella impermanenza delle dottrine e nella permanenza del pragmatismo. Nel suo discorso di accettazione, tenuto in ritardo nel marzo del 1801 dopo due mesi di risse parlamentari per decidere se lui avesse davvero vinto la Casa Bianca, Jefferson propose alla propria giovanissima nazione e al resto del mondo "pace, commercio, amicizia onesta con tutti i popoli e vincoli di alleanza con nessuna". Ecco. Tutto passa e tutto ritorna, sotto i ponti d´America.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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