Vittorio Zucconi: Las Vegas, la città capovolta

08 Febbraio 2005
Chi pensa che l’inferno sia buio, non deve essere mai stato a Las Vegas. Qui è il cielo, a essere senza stelle. La terra è splendente. Ogni volta che ci atterro di notte - e ci sono atterrato troppe volte - ho la sensazione di precipitare verso l’alto, perché Las Vegas è un mondo alla rovescia, dove le stelle stanno sotto e il buio sta sopra. Forse l’inferno è un posto così, splendido, scintillante, succulento, topless, ma eternamente capovolto. E naturalmente senza vergini, tutte condannate al paradiso. Quest’anno, in maggio, l’infernetto nel deserto compirà 100 anni. Non sono proprio l’eternità, ma bastano per far male. Qui, dove quasi 40 milioni di anime entrano ogni anno gonfie di speranza ed escono disperate dopo avere lasciato 80 miliardi di dollari negli alberghi-casinò (l’accento è del tutto optional), ogni cosa funziona benissimo, ma funziona alla rovescia. La forza di gravità spinge verso l’alto, nella rincorsa di mostruosità edilizie sempre più enfatiche, Torri Eifell e Statue della Libertà, Minareti e monoliti della Mgm, tendoni da circo e ville italiane da 80 piani che stroncherebbero il povero Palladio se le potesse vedere. Empietà architettoniche che si rincorrono come rilanci a un tavolo di poker. Il più nuovo, il "Wynn Hotel", intitolato senza più tanti fronzoli al nome dell’uomo più ricco della città, Steve Wynn, sarà costato, quando sarà inaugurato questo aprile, circa un miliardo di dollari. Se appaltassero il ponte sullo Stretto di Messina a lui, l’avrebbe già costruito, Stretto compreso.

Il peccato all’ingrosso
Il peccato si vende all’ingrosso, al dettaglio, sciolto, a pacchi in confezione famiglia, con lo sconto e anche gratis, ma l’82 per cento dei residenti si definiscono nei sondaggi "religiosi" o "molto religiosi". Le donne si vestono per andare a dormire, e si spogliano per andare a lavorare. La terra, con i suoi 23 mila chilometri di luci al neon, illumina il cielo, dove le stelle non possono competere e si nascondono. La notte è il giorno, e solo i profughi degli sconti per comitive si muovono sotto il sole che per nove mesi all’anno rosola i corpi. La gente vera vive di notte, dopo la una, quando gli alieni del buffet tutto compreso e i colombi dei 180 matrimoni al giorno nelle cappelle col finto Elvis intrippato in costumi troppo stretti, sono già a letto, per digerire il buffet o consumare il matrimonio, che all’alba saranno già passati. Una licenza matrimoniale instant e solubile nella luce del mattino, costa 35 dollari. Una petizione di divorzio al tribunale ne costa 450. L’uscita è più cara dell’ingresso, nel mondo capovolto. Le cose che si toccano sono tutte false, ma i miraggi sono veri. Uno dei mastodonti più redditizi di Wynn si chiama appunto Mirage. L’acqua non c’è e infatti zampilla da più fontane di quante ne abbia Roma, giurano le guide. Il centro della città è in periferia, nello ‟Strip”, nel rettilineo dei colossi, mentre la periferia sta in centro, decaduto e triste. I soldi non servono a nulla, perché sono troppi, sono semplici sogni, falsi come le moine delle lap dancer, delle ottomila professioniste delle contorsioni erotiche nel grembo dei clienti a un millimetro dal naso, che di notte fanno marchette e di giorno dicono tutte di frequentare la facoltà di medicina o di giurisprudenza presso l’ottima Nevada University pagando la retta con le mance degli arrapati. Una Harvard nel deserto, costruita con i quartini delle slot machine e dei dollari infilati nei microslip delle baiadere. La ricchezza si misura a miliardi, due milioni di dollari non comprano niente. Sono bigliettini da Monopoli, Mickey Mouse Money, valuta immaginaria da Topolinia. Non bastarono neppure per pagare la stanzetta in un motel da tossici, naturalmente in centro, dove Stu Ungar, tre volte campione del mondo di poker e fresco vincitore di due milioni, morì da solo nel 1998. Un letto coperto di carte da gioco sparpagliate sulla coperta a fioroni sporchi, con le coronarie ingolfate dal cocktail di cocaina e di tranquillanti che usava ogni giorno per potere vivere la vita alla rovescia. Quando nacque, appunto nella primavera del 1905, la battezzarono Las Vegas che vuol dire "le verdi pasture". Chi l’ha mai vista qui, una verde pastura, da quando l’ultimo ittiosauro morì, come Stu Ungar, anche lui solo come una belva estinta? Welcome to fabulous Las Vegas, ti accoglie lo stesso cartello stradale gusto "nostalgia" anni ‘50 piantato da Frankie Old Blue Eyes Sinatra e dai suoi amici, Dino, Peter, Sammy, quando non erano troppo sbronzi per stare in piedi. Da allora, da quando il Rat Pack, i topi di Frankie si ubriacavano con Jfk e le dames, le ragazze dei mafiosi, al ‟Sands”, al ‟Riviera”, al ‟Dunes”, nei vecchi alberghi demoliti e scomparsi come i dinosauri e gli indiani Paiute che una volta erano padroni di questa valle, tutto è cambiato e tutto è rimasto lo stesso. Non cambia mai la materia prima, il carburante, il motore che fa girare il pianeta capovolto e la voglia di degustare un sorso di deliziosa dannazione. "Certo che se questo è l’inferno" diceva "Dino", Dean Martin, prima di stramazzare ubriaco addosso qualche corpo di donna senza nome, "il paradiso deve essere una noia terribile". Tra parentesi: quel cartello che augura il "benvenuto a Las Vegas" non sta neppure a Las Vegas, ma fuori, nella contea chiamata - non avranno molto buon gusto ma l’ironia non manca - "Contea del paradiso". I primi umani ad arrivarci, nel senso dei primi non Indiani nativi, perché quando in America si dice i "primi", degli Indiani ci si scorda sempre, furono due spagnoli, Antonio Armijo e Rafael Rivera, che inciamparono in un’oasi per caso. Avevano talmente sete da scambiarla, nel loro entusiasmo, per una verde pastura. Ma di loro è rimasto soltanto quel nome, che nel mese di maggio del 1905 venne appiccicato al grumo di baracche, di stalle, di bordelli, di bische, di cisterne per le locomotive a vapore della prima linea ferroviaria proveniente da Salt Lake City che osò attraversare il nulla verso la California, quando il signor Clark, barone delle ferrovie e della speculazione sui terreni, decise di nobilitare il villaggio e farne ufficialmente una incorporated town, una città. I primi "anglo", i primi colonizzatori bianchi non spagnoli, alla fine dell’Ottocento erano stati, sempre per restare nel mondo del viceversa, quanto di più lontano si possa immaginare da ciò che Las Vegas sarebbe diventata. Furono i Mormoni ad arrivarci, setta tardo cristiana di insaziabili moralisti, astemi rigorosi, accaniti non fumatori, non giocatori, indossatori di cilicio, missionari implacabili, ma con un solo vizietto, che forse aiuta a spiegare quanto sarebbe accaduto dopo: la poligamia. La leggenda delle favolose "divorziate", degli sciami di signore fresche di sentenza liberatoria che si gettano fameliche su Las Vegas per riguadagnare il tempo perduto, quella leggenda che crolla nell’umiliazione del "sono 500 dollari (minimo) tesoro", forse nasce dagli stuoli di ex mogli che i Mormoni si dovettero lasciar dietro, quando la poligamia divenne illegale e dovettero trovare da campare. La prostituzione naturalmente è proibita a Las Vegas, nella contea del Paradiso e nella contea di Clark, dunque è praticata con produttività cinese. Tutto alla rovescia. Per trovare gli ultimi bordelli autorizzati, gli scannatoi come quel "Mustang Ranch", il ranch delle cavalline selvatiche (femministe astenersi) già quotato a Wall Street, ci si deve avventurare molto fuori, imboccare la strada del nord verso la sorellastra racchia di Las Vegas, Reno. Stanno dove zampettano gli scorpioni e scondizolano i rattlers, i serpenti a sonagli, e il deserto duro nasconde i cadaveri di molti bravi ragazzi che avevano pescato la carta sbagliata e fecero la fine di Bugsy Siegel, il capetto troppo ambizioso della "Jewish Mafia", la famiglia mafiosa ebrea di Lansky, che costruì il primo hotel, casinò, resort, il "Flamingo", sprecando troppi capitali e pestando troppi piedoni suscettibili.

Il sindacato della mafia
Oggi la mafia non controlla più Vegas (così la chiama il popolo della notte, Vegas, senza articolo). Non spadroneggiano più i fondi pensione del sindacato camionisti, i micidiali "Teamsters", che negli anni ‘50 e ‘60 costruivano e demolivano a piacere, fino a quando il loro presidente Jimmy Hoffa scomparve e il suo cadavere non fu mai trovato. Forse sta qui, tra le tarantole e le mignotte, se non è embedded, incastonato nei piloni di cemento di un ponte. I vecchi pit boss, i capetti che controllano i croupier, i dealer, i giocatori e, guarda la coincidenza, si chiamano ancora in tanti Toni, Vinny, Carmelo, Salvatore e li riconosci subito dal capello cotonato, laccato e richiamato per coprire la piazza, lamentano, quando scoprono che sei "‘taliano puro te" e hai perso abbastanza soldi per meritare due chiacchiere, che ormai è tutto un "bisenisse". è tutta un’industria senza cuore, pacchetti azionari e big corporation quotate in Borsa, consigli d’amministrazione e master in economia, controllate da quegli incorruttibili e occhiuti revisori dei conti che già certificarono con tanto rigore i bilanci della Enron, di Cirio e di Parmalat. La promessa di Micheal Corleone alla moglie, "tra cinque anni la famiglia sarà legittima" si è avverata. Il sindaco Oscar Goodman, il 19esimo da quando esiste Vegas, si mette a sibilare come un serpente se gli parli di Mafia. Poi leggi la sua biografia e ti accorgi che ha fatto i miliardi come avvocato difensore di tutti i principali "piezz’e Novanta" di Cosa Nostra, Mayer Lansky, lo sponsor del giustiziato Bugsy Siegel, compreso. "Difendere un assassino non fa dell’avvocato un assassino" sibila lui, giustamente. Ma i miliardi delle sue parcelle, avvocato, da dove venivano, da una colletta in chiesa? "Ci sono 160 chiese a Las Vegas, altro che inferno". Amen, amen, ma ci sono 1701 case da gioco autorizzate. Croupier batte Reverendo dieci a uno. E i casini rendono quasi 10 miliardi di dollari in entrate fiscali alle casse di sindaco, ogni anno. Le chiese, che sono tutte non profit, ciccia. A chi andranno le simpatie del primo cittadino?

La torta più grande
La Camera di Commercio, dove il mondo sembra per un momento raddrizzarsi e tornare alla normale banalità della propaganda ufficiale, vanta la gloria di questa città nel nulla che cresce più di ogni altra metropoli americana, sessantamila residenti legali in più all’anno, più i clandestini, totale un milione e mezzo di abitanti. Qui vive lo spirito della frontiera, diranno nel prossimo mese di maggio quando Wynn preparerà "la torta più grande del mondo" (vai poi a controllare) per il centenario, prosperano l’individualismo del cercatore d’oro, la tenacia dei 49ers, i disperati che attraversarono a piedi il deserto nel 1849 per arrivare, i superstiti, alla California. Ronald Reagan era adorato e proprio da Las Vegas, dal motel casinò "Thunderbird", il dio indiano del tuono, lanciò (lo so, c’ero anche io, naturalmente non per giocare, per lavorare) la propria corsa alla Casa Bianca. Repubblicani di ferro, dunque, tutti Dio, patria, ballerine in topless, tavolini da gioco e bombe atomiche guardate dai tetti dei caffè mentre le esplodevano, crepino le radiazioni, dunque? E il mondo alla rovescia, lo abbiamo già scordato? Alle elezioni del novembre scorso, questa fu l’unica città del Nevada e di tutta la frontiera del West che votò per John Kerry. Forse perché, come mi disse una brava madre di famiglia di mezza età, divorziata con tre figli, che distribuiva le carte a un tavolo di black jack, "noi qui i bari li riconosciamo appena si siedono". O forse i bravi Vegans si ricordano che se il loro pianeta assurdo esiste e ramazza dollari, non lo deve allo spirito dell’iniziativa privata, ma a quella diga voluta da Hoover e costruita da quel "comunista" di Roosevelt che ferma il Colorado e alimenta con elettricità a buon mercato tutti i neon e tutti i condizionatori d’aria della città. Senza lo statalismo rooseveltiano, qui ancora correrebbero indisturbati gli Indiani Paiute. Un inferno privato alimentato dai soldi dei contribuenti. Una serie di gironi concentrici che si alzano verso il cielo, fino alle "balene", alle whales, come nel gergo dei casinò si chiamano i giocatori, quasi sempre cinesi, giapponesi o arabi che perdono almeno un milione di dollari e le cui carcasse sono amorevolmente accudite con pasti, suite, ragazze di scorta (non armata), limousine, biglietti aerei a spese dell’albergo. Ci sono ormai voli di linea non stop di jumbo da Londra, Francoforte, Tokyo, Taipei. L’acqua della globalizzazione finisce in questo imbuto. Una sera del 2000 feci qualche mano di poker da Binion’s, la Betlemme dove nacque il mondiale, con Doyle Brunson, il vecchio maestro malato, dimenticando la Prima Legge del Poker ("se non riesci a individuare il pollo seduto al tuo tavolo, vuol dire che il pollo sei tu"). Si degnò di rivolgermi anche la parola e di farmi notare ridendo qualcosa che io - il pollo - non avevo mai notato. Che c’è un solo Re, tra i quattro nel mazzo, senza i baffi, ed è il Re di Cuori. E che vuol dire? Vuol dire che lui aveva i tre coi baffi e io l’unico glabro. Prese il piatto e io uscii nella notte, a riveder le stelle sulla terra.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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