Vittorio Zucconi: Ritorno all’America. Il nuovo credo di Bush

08 Febbraio 2005
"Fiducioso e forte" è lo stato dell’Unione americana, annuncia George Bush a cavallo del successo in Iraq nel rapporto davanti alle Camere riunite e a una nazione che lo guardava alla tv con un occhio solo, l’altro puntato su una popolarissima trasmissione di trash musicale, l’"Idolo", che lo supera nello share d’ascolto. Ma più che all’Unione, il Presidente pensava a se stesso. Fiducioso e forte, come mai era stato prima, è lui, il Presidente accidentale del 2000 divenuto signore del mondo, liberatore di Afghanistan, Iraq, addirittura di Palestina e Ucraina, che cita fra i propri successi, tanto forte e fiducioso da lanciarsi all’assalto dell’ultimo tempio del New Deal ancora in piedi, il sistema delle pensioni pubbliche, che Bush vuole privatizzare. O, come preferisce l’eufemismo scelto dal marketing politico per non innervosire gli elettori, "personalizzare". Ogni discorso sullo "Stato dell’Unione", appuntamento imposto dalla Costituzione, è in realtà sempre un discorso sullo Stato del Presidente in carica. La situazione del paese e del mondo, nel tempo della comunicazione universale e istantanea, è già noto a tutti coloro che lo ascoltano. Il discorso - 60 minuti quello di mercoledì sera - serve a prendere la temperatura di chi lo pronuncia, a stabilire una prognosi sulle sue intenzioni, il suo umore, i suoi programmi. Da Reagan, insuperato interprete della rappresentazione politica, il Sotu pronunciato dal Potus (State Of The Union letto dal President Of The United States secondo l’ossessione americana per acronimi e sigle) impone anche la presenza di figuranti e ospiti invitati per sottolineare con quadretti viventi i punti più cari all’oratore. In questa occasione, il climax, l’apice della commozione è stato l’abbraccio tra una elettrice irachena trasportata a Washington e la madre di un sergente ucciso in Iraq. Una rappresentazione simbolica perfetta, e commovente nella madre che non recitava perché il figlio aveva perduto davvero, del doloroso trionfo del nuovo imperatore, che dall’alto podio guardava le due donne con paterna e apostolica commozione. Non fingeva, Bush, perché in questa fine inverno 2005 egli si sente realmente l’eletto dal Signore, un Presidente a cavallo che già parla e si muove come il monumento che ogni rieletto domanda ai nuovi quattro anni alla Casa Bianca. Le elezioni in Iraq, delle quali ancora non conosciamo le percentuali di voto cinque giorni dopo e meno ancora la distribuzione del voto, sono state accettate dal mondo, e anche dagli oppositori, come un successo e dunque come una sconfitta del terrorismo. Neppure una nuova ondata di omicidi ieri, con almeno venti morti iracheni e due Marines americani caduti ad Ambar, scuote la percezione di una vittoria. La speranza che la domenica elettorale in Iraq spingesse il Presidente a uscire dalla genericità dei suoi piani si è dissolta quando ha respinto ogni calendario di transizione e di ritiro, non ha neppure nominato un possibile ruolo per l’Onu, né una possibile rotazione di forze e ha detto che le truppe americane si ritireranno soltanto quando l’Iraq sarà "democratico, rappresentativo di tutte le genti che lo compongono, in pace con i vicini e capace di difendere se stesso". Un paese perfetto, secondo questa definizione nelle quali molte altre nazioni - basti pensare al Pakistan e all’India in perenne attrito reciproco - non potrebbero identificarsi. Il presidente a cavallo del successo, o dello scampato pericolo, elettorale a Bagdad ha voluto addirittura creare l’impressione che la guerra in Iraq, le migliaia di morti civili e militari, le decine di migliaia di feriti e amputati, i miliardi bruciati nell’altoforno di questa missione ancora senza fine visibile, siano la storia di ieri, un capitolo che si sta chiudendo, come si è chiuso l’episodio intitolato a Osama Bin Laden, ignorato e sostituito con il malvagio del momento, il giordano Al Zarqawi, volgare assassino che ha avuto l’onore - cosi certamente deve essere apparso ai suoi occhi febbrili - di essere citato per nome nel più solenne dei discorsi del Presidente americano. Per arrivare alla guerra, all’argomento che aveva divorato tempo e sentimenti nei suoi tre discorsi sullo Stato dell’Unione dopo l’11 settembre, si sono dovuti attendere 40 dei 60 minuti complessivi, una scelta di inversione delle priorità che ci dicono voluta da lui stesso, e fedelmente interpretata dall’ex editorialista del ‟Wall Street Journal” divenuto il nuovo capo degli speechwriter, degli scrittori dei discorsi presidenziali, William McGurn. Una scelta abile, e astuta, che conferma il fiuto politico di George Bush. La nazione alla quale parlava, e che infatti gli preferiva un reality show musicale con crudeli esibizioni di dilettanti, di guerra non vuol più sapere. L’apoteosi della democrazia elettorale in Iraq, che le poche immagini televisive, hanno documentato e ormai cementato come verità, hanno provocato anche nei mass media, "un collasso della tensione", come ha detto Brian Williams, inviato della Abc rientrato da Bagdad, "un desiderio profondo di guardare avanti e di buttarsi alle spalle questi anni di dubbi e di ansie", secondo Dick Morris, manager bravo e cinico di campagne elettorali. E davanti c’è il nuovo sogno di Bush, ormai assolutamente persuaso di avere esportato la democrazia nel mondo e deciso a importare il tatcherismo e finire il lavoro lasciato incompiuto da Reagan. C’è il sogno di demolire i resti del welfare state, dell’assistenzialismo pubblico, e di liberare dalle ultime bretelle del New Deal l’economia americana, arrivando alla terra promessa della ownership society, la società di tutti padroncini. Sarà questo, non più l’Iraq noioso e ormai dato per vinto, il campo di battaglia sul quale il Presidente a cavallo che abbiamo visto trionfante l’altra sera, si lancerà e sul quale i resti sparsi del partito democratico e dell’opposizione di sinistra dovranno combattere, ancora una volta costretti, come vediamo ogni giorno in altre nazioni, a battersi su un terreno scelto dall’avversario. Il settuagenario sistema assicurativo della Social Security, della pensione assicurata dal governo federale, scricchiola, come in altre nazioni e come già sapeva Clinton, sotto il peso dell’invecchiamento della società e della sproporzione fra giovani lavoratori contribuenti e troppi ex lavoratori che percepiscono pensioni e la soluzione che Bush offre è privatizzare e investire in Borsa una parte delle ritenute di oggi. è una soluzione che scandalizza gli oppositori, spaventa gli anziani ed entusiasma gli operatori di Borsa, che pregustano lo tsunami di soldi in arrivo, ma porta lo stesso segno ideologico dell’operazione "guerra preventiva per disarmare Saddam Hussein" dalle armi che non aveva. Porta il segno di una destra che si sente rivoluzionaria e chiamata, da Dio, dal destino, dagli elettori, a rivoltare, come disse un suo esponente minore in un’altra nazione, il mondo come un calzino.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …