Vittorio Zucconi: La diplomazia preventiva

22 Febbraio 2005
È questo, che a Bruxelles ha giurato di non permettere mai a "nessuna forza al mondo di dividere l´America dall´Europa", lo stesso George Bush che mandò il proprio ministro della difesa a dividere l´Europa tra "vecchia" e "nuova"? È questo Bush, che finalmente e durissimamente richiama Putin a rispettare "la democrazia e la legge", lo stesso Bush che lo guardò negli occhi e concluse che "questo è un uomo del quale possiamo fidarci"? È questa, che parla di antiche polemiche ormai "da sbiadire nel passato", la stessa America che minacciò la Francia di "conseguenze" se avesse giocato contro? No, non é lo stesso Bush.
La speranza di vedere ripetuta la classica metamorfosi del secondo mandato, quando i presidenti rieletti si trasformano da capi di partito in capi di stato, sembra oggi meno illusoria. A Bruxelles è nato il Bush statista e, con lui, l´ipotesi di una nuova dottrina della "diplomazia preventiva".
Se è vero quello che il suo apparato propagandistico interno e internazionale ci ripete da quattro anni, che George "W" è un uomo che "fa quello dice e dice quello che fa", il tono, la sostanza e le parole del suo discorso all´Europa vanno ascoltati con attenzione e presi sul serio. Bush non si è improvvisamente e miracolosamente trasfigurato in un internazionalista alla Wilson, o in un pacifista allergico alle armi. Nel suo primo, serio discorso all´Europa dopo quattro anni di prediche, ci sono ancora tutti quegli elementi imperial-ideologici presi a prestito dai documenti della destra neo conservatrice che avevano turbato, e a tratti offeso, la parte meno servile degli euroalleati. Ma il centro di gravità della posizione che il Presidente é venuto a esporre, e non a imporre come aveva fatto nei frettolosi e imperiosi incontri prebellici, è nella necessità, per la sua America prima di tutti, di non gettare via il bambino della identità occidentale con l´acqua sporca degli errori e delle incomprensioni reciproche.
In quattro anni, e soprattutto nei tre passati dopo l´11 settembre, avevamo ascoltato il Bush guerriero, il Bush missionario, il Bush liberatore, il Bush profetico, il Bush demagogo. A Bruxelles abbiamo visto, per la prima volta, il Bush statista. Un uomo che ha parlato come leader di tutta l´America, pronunciando parole che il suo avversario Kerry avrebbe potuto tranquillamente dire se fosse sbarcato lui dall´Air Force One, che si é espresso da garante centrale di quel sistema di democrazie diverse che formano il mondo atlantico e che i suoi predecessori statisti avevano contribuito a creare. Sappiamo, naturalmente, che un discorso è soltanto un discorso, e gli speechwriter, gli artigiani della retorica presidenziale, cuciono le parole e le espressioni sulla misura del consumatore al quale é destinato. Dunque un indirizzo a un gruppo di soldati in partenza per il fronte sarà sempre diverso da un discorso a un parterre di intellettuali e leader europei.
Ma tra l´uomo imbronciato che svogliatamente andò alle Azzorre, poche ora prima dell´assalto a Bagdad, per "gettare un osso" a Tony Blair e garantirsi la partecipazione inglese alla guerra e l´uomo - un poco emozionato e assai teso - di Bruxelles, c´è di mezzo l´Iraq, nelle facce opposte e complementari di due anni di combattimento, di morte e di occupazione. La lezione che Bush sembra avere imparato da questa guerra è in quelle due parole che lui ha ripetuto, "rischio e opportunità". Il "Bush statista" ha cercato di dire agli Europei che le elezioni del 30 gennaio hanno offerto ai separati in casa, come erano diventate l´Europa e l´America, l´occasione per condividere i rischi e per sfruttare le opportunità, insieme. Perché la vittoria dell´America non sia un´umiliazione per l´Europa capace di accendere ancor di più la fantasia degli unilateralista e la sconfitta non sia un disastro che demolisca il perno del sistema occidente, mentre avanza l´autocrazia russa e cresce il profilo indecifrabile della Cina.
La Casa Bianca sa bene che sulla rotta delle stragi quotidiane e della insicurezza, che svuota di significato reale ogni pretesa di libertà e democrazia, gli Stati Uniti da soli non possono continuare all´infinito né un´ipotesi di guerra all´Iran è realistica. Trecento miliardi di dollari già spesi o stanziati, e quasi tre soldati uccisi in media al giorno, non sono un prezzo che neppure l´opinione o il tesoro americani possano sostenere all´infinito. Ma sa anche, e oggi lo dice all´Europa, che un nuovo Vietnam, un ritiro colorato di sconfitta di fronte al terrorismo, sarebbe una disfatta per l´intero sistema occidente, sarebbe quella "forza" capace di dividere i due mondi. Dunque, l´invito a buttarsi il passato alle spalle, che ci ha risparmiato la miseria dell´"avevamo ragione noi" capace soltanto di irrigidire e offendere gli altri, significa un invito a condividere il possibile successo, ma anche a portare insieme il peso di una sempre possibile catastrofe.
È il seme di una nuova "dottrina Bush", costruita meno sull´ideologia e più sul pragmatismo, secondo l´oscillazione storica del pendolo politico americano, ora che il Presidente rieletto non ha più bisogno di coltivare voti. La lezione dell´Iraq non è passata invano, e Washington punta sull´ipotesi che non sia passata invano neppure per l´Europa. Rimane il rimpianto per non avere sentito pronunciare queste parole prima di sparare il primo colpo, la rabbia per il rifiuto del primo Bush non ancora cresciuto a "statista" di affrontare questi alleati europei con spiegazioni, incontri, vertici seri, anziché buttare il fumo di ipotesi false e giocare sulla debolezza interna dell´Europa. Ma riascoltare un presidente ammettere che anche l´onnipotente America "ha bisogno di un´Europa forte" riporta il nostro mondo capovolto dall´incubo del terrore alla primazia della politica sulla violenza e al possibile ritorno alla "diplomazia preventiva". Sempre che questa Europa possa essere davvero forte ed europea. Ma non é questa una risposta che a Bush si possa chiedere.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …