Vittorio Zucconi: Malcolm X: L’eredità controversa di un missionario violento

25 Febbraio 2005
Per la US Army, l’esercito americano, Malcolm Little era "soggetto con tendenze psicopatiche e perversioni sessuali. Scartato". L’Fbi lo aveva schedato come un magnaccia e poi promosso ad agitatore sovversivo. Martin Luther King, che da vivo lo evitava come la peste, sulla bara lo chiamò "una voce eloquente e alta nella denuncia della tragedia del nostro popolo". E per i ragazzi di oggi, quelli che scivolano via nelle strade del ghetto con le automobili lucidate a cera e pulsanti dei tonfi ritmici dello hip-hop, l’autore della Autobiografia che Time ha giudicato uno dei dieci libri più importanti del ‘900, è un eroe, ma per dispetto ai vecchi. Per tutti, quarant’anni dopo le quindici pallottole che lo abbatterono a New York il 21 febbraio 1965, Malcolm X, l’uomo senza nome dai troppi nomi, resta la paura di ciò che non fu e il presagio di ciò che potrebbe essere: la sollevazione di un popolo che "siede alla tavola imbandita dell’America ma non mangia con gli altri commensali", come lui disse. Nei quarant’anni che corrono tra la esecuzione di Malcolm Little, o Malcolm X, o al-Maji Malik al-Shabazz, o Ajar, come suonava il nome originale del nonno schiavo rapito dal Benin, e l’assunzione di Condoleeza Rice alla cena dei potenti come Segretario di Stato, l’incubo della "crisi in bianco e nero", sembrerebbe essere stato risolto. Dalla città di Omaha, nel Nebraska, dove il padre di Malcolm, Earl Little, pastore battista, fu probabilmente ucciso e la madre Louise, incinta di lui, fu minacciata di morte da razzisti locali, alla capitale Washington, dove "gli americani invisibili" sono diventati visibilissimi giudici, ministri, generali e imprenditori, la battuta sulla tavola e i commensali dovrebbe suonare scaduta. Ma allora perché, nel mondo della musica popolare, nell’universo dello hood, del ghetto, si guarda con più ammirazione a Malcolm che a Condoleeza? Perché le etichette e i gruppi rap e hip hop, come "Roots", o "Boogie Down", o i trovatori del "gangsta rap", cantano le glorie di un perdente come lui, piuttosto che i salmi dei nuovi vincenti della integrazione? Malcolm chiamato X, l’uomo che rifiutò quel cognome "Little" appiccicato dai padroni bianchi, avrebbe le credenziali per essere un relitto di battaglie perdute e, in alcuni casi, sbagliate, ricordato come autore di un libro magnifico, fra i suoi tanti. La violenza come risposta all’apartheid, il "separati ma uguali", nei quali lui crebbe lavorando come chaffeur per una signora anziana alla "Driving Miss Daisy", come friggitore di polli, come manovale in ferrovia, come ladro di auto, come pappone, come cantante da saloon sotto lo pseudonimo di "Detroit Red" o "Rhythm Red", è finita con il tramonto delle Pantere Nere. Quell’Islam che lui abbracciò non gode, dopo l’11 settembre, di buona stampa. E quanto i bianchi, anzi, più dei bianchi, i neri muoiono in Iraq nella speranza di sconfiggerne le manifestazioni violente. Martin Luther King, che rifiutò sempre di dibattere con Malcolm pubblicamente, è il santo definitivo della battaglia per l’eguaglianza civile e le strade, le scuole, le librerie, i monumenti al suo nome non si contano. Mentre per Malcolm, il perdente, se ne conoscono soltanto tre in tutti gli Stati Uniti, quattro con la prossima apertura di un museo ad memoriam nell’auditorium Audobon dove fu ammazzato da tre sicari. Proprio in questo tentativo, inconscio e deliberato insieme, di dimenticare un personaggio poco digeribile, il propagandista che sperava nell’Unione Sovietica per liberare l’Africa, frequentava Fidel Castro e predicava l’impiego di "ogni mezzo necessario" per vincere, sta la ragione della sua resurrezione. Molto fece per lui la biografia di Alex Haley, già autore del famosissimo Roots, Radici, divenuta nel 1992 il film di Spike Lee, con il viso di Denzel Washington. Ma anche il migliore dei film non lascia segni se non mette, o non trova, appunto le roots, le radici. Il terreno nel quale è rigermogliata la pianta del suo mito, coltivato dalle sue sette figlie, è la confusione identitaria della nuova gioventù nera, versione accentuata della confusione identitaria di ogni nuova generazione. "Il Rosso di Detroit" era un leader tanto eloquente e brillante, quanto era confuso e ondeggiante nelle sue convinzioni, che ruotavano attorno alla certezza dell’ingiustizia razziale. Per questo torna a piacere, nel tempo della nuova confusione. Era stato svezzato con l’odio, quell’"odio che partorisce dall’odio", come diceva, quando la casa dei genitori fu bruciata, il padre fu ucciso in un incidente stradale e la madre fu rinchiusa per 26 anni in ospedale psichiatrico. Aveva studiato al liceo e poi si era laureato in quelle perfette università del male che sono le carceri, dove era stato rinchiuso sette anni, per furto, traffico di droga e pimping, sfruttamento della prostituzione. Avrebbe voluto studiare giurisprudenza ma gli fu risposto che "fare l’avvocato non era lavoro da nigger", da negraccio. Ma proprio in prigione, lo "psicopatico" respinto dalle armate dello zio Sam, conobbe l’Islam predicato da Elijah Muhammad e si convertì. Divenne un missionario della Nation of Islam, aprendo nuove moschee a Boston, Detroit, Harlem, portando a 50 mila il numero dei convertiti, consumato da uno zelo, e sostenuto da un’intelligenza militante che lo portarono in fretta sui giornali, sugli schermi TV e negli schedari dell’Fbi. Edgar Hoover riuscì a collocare un agente come sua guardia del corpo del giovane agitatore in ascesa continua. Fino al 1963, l’anno della grande delusione e della grande gaffe. In quell’anno scoprì che il "califfo" di fatto dell’Islamismo nero, Elijah, aveva una mezza dozzina di amanti sparse per la nazione, e le dita in troppi interessi venali, dietro la predicazione di austerità e di integrità. Quando Kennedy fu ucciso, lui uscì con una frase sprezzante che lo tormentò per il resto della vita. "Kennedy non immaginava che le galline sarebbe tornate cosi presto a beccare nel pollaio", un modo rustico per dire: ha avuto quello che si meritava. Elijiah lo punì, imponendogli il silenzio che più tardi avrebbe portato alla sua esclusione dall’Islam nero. Malcolm, divenuto al-Shabbaz, rispose fondando la propria setta musulmana dissidente, lanciandosi in esternazioni politiche a favore dell’Unione Sovietica e viaggi a Cuba, antagonizzando i molti e perciò seducendo i pochi, in una generosa miscela di miti e di idee correnti in quegli anni di violenza reciproca. Fulminava tutti coloro, Martin Luther King compreso, che sospettava di "lasciarsi integrare" dai "diavoli biondi con gli occhi azzurri". L’Fbi gli fece sapere che trame per assassinarlo affioravano ovunque. Aveva 38 anni appena, quando s’imbarcò per la Mecca, nel suo hadj, nel suo pellegrinaggio, tornando con un messaggio completamente diverso da quello che aveva lasciato. "Nel mio viaggio ho incontrato uomini biondi con gli occhi azzurri che posso chiamare fratelli". Fu una sorta di epifania della fratellanza universale che i suoi agiografi, come Haley e Lee, possono esibire ora, ma che non abbassò la febbre dell’odio. Tre assassini lo crivellarono con 15 colpi di pistola mentre parlava a New York. "Radio ghetto" ha sempre mantenuto la certezza indimostrabile che fossero sicari inviati dalle nuova star nascente della ortodossia islamica nera, Louis Farrakhan. Furono pochi, bianchi o neri, a piangere il silenzio imposto a quella voce e appena 1.500 persone parteciparono al funerale. I vecchi che lo conobbero e lo ascoltarono, oggi, non lo rimpiangono. I loro figli lo cantano, in pezzi e in album che portano come titolo proprio la sua frase più preoccupante, "By any means necessary", con ogni mezzo necessario. I giovani che passano dietro i vetri scuri delle loro auto truccate, rimbombando l’eco del suo messaggio, non sanno molto di Urss, di Guerra Fredda, di scismi e di rivalità personali, ma vivono due volte, come teen agers e come neri, attraverso di lui l’essenza della inquietudine espressa dal profeta con troppi nomi e troppo poca vita. L’eterno dilemma giovanile tra identità e assimilazione.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …