Umberto Galimberti: Quando la scienza infrange il tabù

28 Febbraio 2005
Come si fa a impedire alla tecnica che può di non fare ciò che può? Questa è la domanda che oggi si pone di fronte ai tentativi, esperiti in diversi laboratori del mondo, di contaminazione tra materiale biologico umano e materiale biologico animale. Dopo la clonazione della pecora Dolly, il suo creatore Jan Wilmut è stato autorizzato a produrre neuroni umani attraverso la clonazione. Alla Stanford University, il professor Weissman sta trapiantando neuroni umani nel cervello dei topi. A Shanghai biologi cinesi studiano gli effetti dell’unione di cellule di uomo e ovociti di coniglio. Nel Minnesota sono stati creati animali con sangue umano che scorre nelle loro vene. Nel Nevada si sono ottenute pecore con fegati e cuori formati da cellule umane. E questi sono solo alcuni esempi di sperimentazioni in cui si oltrepassa il confine tra mondo umano e mondo animale. La cosa è allarmante sia per chi pensa, alla maniera degli antichi greci, che le leggi di natura non possono essere violate, sia per chi pensa, come vuole la tradizione giudaico-cristiana, che la natura possa essere dominata e posta al servizio dell’uomo, ma nel rispetto delle sue leggi. Queste due concezioni, e le etiche che le difendono, sono entrambi inadeguate nell’età della tecnica, perché formulate in epoche in cui la tecnica non era in grado di modificare la natura, e il potere dell’uomo sulla natura era praticamente nullo. Oggi non è più così. La natura non è più l’immutabile perché è in ogni suo aspetto manipolabile e modificabile dall’intervento tecnico. La tecnica, a sua volta, non è più in potere dell’uomo perché i risultati che consegue non nascono da indicazioni umane, ma dagli esiti delle sue procedure, in cui è rintracciabile quella che potremmo definire "l’etica della tecnoscienza" che risponde all’imperativo: "Si deve conoscere tutto ciò che si può conoscere, e quindi fare tutto ciò che si può fare". Così formulata, l’etica della tecnoscienza ha come obiettivo solo il suo autopotenziamento, come è evidente, ad esempio, nelle ricerche sul potenziamento delle armi atomiche, anche se ne disponiamo abbastanza per distruggere la terra almeno diecimila volte. E non collima con l’etica antropologica che ha in vista il miglioramento delle condizioni umane. E questo non collimare non è solo un dato di fatto, ma è un contrasto di principio, perché la tecnica non è più uno strumento nelle mani dell’uomo, come ostinatamente si continua a credere, ma è diventata il vero soggetto della storia, e come tale esprime non più il potere dell’uomo sulla natura, ma il suo potere sull’uomo e sulla natura. Oggi si è giunti alle estreme conseguenze di quell’intuizione che Bacone aveva avuto alle origini della scienza moderna e che aveva espresso in quella formula "scientia est potentia". Una formula divenuta minacciosamente coerente con se stessa nel momento in cui il sapere si è autonomizzato dall’uomo che l’ha escogitato, sottraendo a quest’ultimo il potere che al sapere è intimamente connesso. In questo scenario, di fronte alla tecnica, l’etica diventa pat-etica. Può invocare la tecnica che può di non fare ciò che può. E quando s’è mai visto nella storia un’autolimitazione della potenza da parte di chi la detiene? Finita l’epoca in cui, per insufficienza tecnica, la natura era pensata come l’immutabile; finita l’epoca in cui l’uomo poteva concepire la tecnica come "mezzo" per agevolare il suo dominio sulla natura, oggi siamo nell’epoca in cui la tecnica guarda sia l’uomo sia la natura come semplice materia su cui compiere la sua sperimentazione. E se i risultati che la tecnica è in grado di conseguire coincidono con gli interessi economici, sembra non ci sia etica in grado di fermare questa collusione, dal momento che non pare che il mondo sia governato da altri valori che non siano il valore del denaro che la tecnica concorre a potenziare. Ci si chiede a questo punto: che fare? Platone diceva che siccome la tecnica non ha scopi è necessaria quella "tecnica regia", come lui la chiama, che è la politica, in grado di assegnare alla tecnica i suoi scopi. Ma oggi la politica ha in vista il primato dell’uomo, il riscatto delle sue condizioni di vita in molte parti del mondo subumane, o, come pare, ha in vista solo l’esercizio della sua potenza? In questo caso la sua alleanza, quando non la sua subordinazione alla tecnica sembrano inevitabili. E allora il confronto non è, come sempre si dice, tra etica e tecnica dove non c’è partita, ma, all’interno della politica, per come la politica pensa se stessa: se come puro esercizio della potenza, o come quella forma di sovranità a servizio dell’uomo in grado di assegnare allo sviluppo tecnico, in sé afinalizzato, il suo scopo. La vera domanda allora non è quella che solitamente si pone, ovvero se la tecnica debba essere incoraggiata o arrestata nel suo sviluppo, ma se la politica è in grado di ripensare se stessa e considerare se la sua legittimazione le deriva dall’esercizio della potenza, come sembra oggi accada, o dalla difesa della condizione umana che non rientra nelle finalità specifiche della tecnica. Se la politica saprà rispondere a questa domanda, allora anche lo sviluppo imprevedibile della tecnica cesserà di apparirci minaccioso.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …