Umberto Galimberti: Il bene e il male attraverso il mistero

07 Marzo 2005
Se la ragione è un sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere, la religione custodisce quello sfondo pre-razionale che gli uomini abitano più profondamente e più intimamente di quanto non si adattino alla convenzione razionale. Per questo occorre lasciar cadere quella grossolana distinzione che separa credenti da non credenti. Gli uni e gli altri abitano infatti quelle metafore di base che la religione, prima della filosofia e prima della scienza, ha indicato segnalando la separazione tra sacro e profano, tra spazio dell´uomo e spazio trascendente l´umano, tra tempo della vita e tempo che precede e oltrepassa la vita.
"Sacro" è parola indoeuropea che significa "separato". La sacralità, quindi, non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l´uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata "divina", pensata comunque come "separata" e "altra" rispetto al mondo umano.
Dal sacro l´uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell´origine da cui un giorno ci si è emancipati.
Questo rapporto ambivalente è l´essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in sé raccolta (re-legere), l´area del sacro, in modo da garantirne ad un tempo la separazione e il contatto, che restano comunque regolati da pratiche rituali capaci da un lato di evitare l´espansione incontrollata del sacro e dall´altro la sua inaccessibilità. Sembra che tutto ciò sia stato presentito dall´umanità prima di temere o di invocare qualsiasi divinità. Dio, infatti, nella religione, è arrivato con molto ritardo.
Al contatto con il mondo sacro sono preposte persone consacrate e separate dal resto della comunità (i sacerdoti), spazi separati dagli altri in quanto carichi di potere (sorgenti, alberi, monti e poi templi, sinagoghe, chiese, moschee), tempi separati dagli altri e nominati festivi che delimitano i periodi sacri da quelli profani dove, fuori dal tempio (fanum), si svolge la vita di ogni giorno scandita dal lavoro e dai divieti (i tabù) da cui traggono origine le regole e le trasgressioni.
Al regno del sacro non appartengono solo le creature soprannaturali, Dio, gli dei, mostri di ogni tipo, i morti, ma anche la natura per quel tanto che è estranea alla cultura, quindi gli istinti, le pulsioni, le passioni, le malattie, da cui non a caso hanno preso avvio le prime riflessioni di Freud.
Oltre alla lettura religiosa, del sacro si danno infatti anche interpretazioni antropologiche e psicologiche, perché il sacro non è solo "esterno" all´uomo, ma anche "interno" ad esso, come suo fondo inconscio, da cui un giorno la coscienza si è emancipata e resa autonoma, senza peraltro sopprimere lo sfondo enigmatico e buio della sua origine.
Da questa origine la coscienza ancora dipende sia per la genesi delle sue ideazioni, sia per la minaccia mai scongiurata di esserne di nuovo risucchiata in quelle forme che l´odierna "patologia", in cui si è risolta l´antica "mitologia", chiama follia.
A conoscere questa follia non sono tanto la psicologia, la psicoanalisi o la psichiatria, la religione che, delimitando e circoscrivendo l´area del sacro, e tenendola a un tempo "separata" dalla comunità degli uomini e "accessibile" attraverso ritualità codificate, ha posto le condizioni perché gli uomini potessero edificare il cosmo della ragione, il solo che essi possono abitare, senza rimuovere l´abisso del caos, la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità. Perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in modo non oracolare e non enigmatico.
Qui non si tratta di rimuovere il sacro e la sua ambivalenza. L´umanità non ha mai pensato che questa rimozione fosse possibile perché, vedendosi sola fuori da esso, doveva credersi da questo generata. Così hanno sempre parlato le religioni, e qui il loro discorso non è sospetto perché è venuto prima dell´ "astuzia della ragione".
Proteggendo la comunità dal sacro, le religioni hanno sempre saputo che una separazione troppo grande è pericolosa quanto una fusione completa, perché può concludersi solo con un ritorno in forza della violenza del sacro, da cui non siamo mai totalmente separati.
Se il sacro si allontana troppo si rischia di dimenticare le regole che gli uomini hanno appreso per proteggersi, e allora il sacro irrompe e la sua violenza produce il dissolvimento della comunità o, in chiave psicologica, della personalità.
Il sacro, infatti, come dimostrano gli esiti tragici a cui spesso conduce il conflitto tra le fedi, è un regime di massima violenza suicida e omicida, dove si giocano espressioni di rifiuto radicale della normalità esistente, processi simbolici di rinascita e di trasformazione, eventi di morte, e dove in gioco sono quelle situazioni-limite intorno a cui da sempre si raccolgono quei regolatori del sacro che in tutte le culture si chiamano "sacerdoti", da tempo provvisti di quelle metafore di base in cui l´umanità riconosce se stessa, quando la follia della mente disorienta l´anima e sottrae, al tranquillo incedere della ragione, ogni forza persuasiva.
Nel recinto del sacro, che gli antichi avevano cura di delimitare perché ciò che lì si manifesta è palese contraddizione, entusiasmo fuori misura, dolore sordo e muto, avvengono "sacrifici" (di cui la transustanziazione cristiana del pane e del vino in carne e sangue di Cristo è l´ultima traccia), in quella trasfigurazione di tutti i segni e di tutte le parole che le religioni con i loro simboli hanno saputo codificare.
Da sempre, infatti, le religioni sono state le grandi regolatrici del sacro, perché hanno saputo incontrare l´uomo presso il tempio, presso l´animale sacrificato, nell´orgia dionisiaca, nel mistero eleusino, alle pendici del Golgota, nelle arene lorde di sangue e brandelli di carne, e, in tempi più evoluti, nell´angoscia segreta che attanaglia l´uomo, incerto sulla sua origine e sul suo destino.
Non ci si angoscia, infatti, per questo o per quello, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all´ingresso e all´uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere. Un esistere per nulla o per Dio?
Ma qui siamo già nel repertorio delle risposte, delle argomentazioni, delle conversioni, delle disperazioni. Io vorrei trovare l´essenza della religione prima di queste domande e risposte, vorrei trovarla là dove si dà il terreno da cui è possibile sentire e pensare.
Filosofia e scienza sono edifici concettuali, ma è possibile edificare concettualmente solo se un terreno di metafore e di simboli ci ospita. Questo terreno è scavato dalla religione che segnala cos´è l´alto e cos´è il basso, la destra e la sinistra. Convoca il cielo e la terra, dispone a destra il bene, a sinistra il male. Prevede che la disperazione dell´uomo, che tende il suo urlo, anche sommesso, al di là dell´esistenza, abbia un ascolto. E chiama questo ascolto Dio. Ignoto Tu che supplisce l´indifferenza della terra e delle macchinazioni che si compiono sulla terra.
Sembra infatti che il dialogo tra gli uomini sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore. Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta davvero da nessuna voce umana. Sembra che l´intensità della passione non trovi corrispondenza nell´amore e nell´odio che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi.
Sembra che la solitudine non possa neppure costituirsi, e tantomeno un dialogo interiore, se l´altra parte non ha un volto sovrumano. Sembra che la metafora dell´inconscio sia troppo povera per contenere quel patire che solo nei simboli religiosi trova l´altezza della sua iconografia.
Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto. E neppure sanno se questa terra è la nostra definitiva dimora, o è l´esilio che invoca quel ritorno che le religioni prefigurano come corrispondenza immaginifica dell´anima.
Eppure anche il nostro linguaggio che formula questi interrogativi forse non avrebbe trovato le sue parole se la religione non gli avesse dato i simboli che, come cascate, le hanno generate una dopo l´altra. Ma col vincolo che nessuna parola avrebbe avuto senso se si fosse staccata dal simbolo che l´aveva generata.
Parole staccate, parole perdute per l´Evento. Ecco che cos´è la religione: l´Evento. Un andamento silenzioso e gravido di senso, capace anche di negarsi per far accadere tutta la storia. Assentandosi Dio, accadde il mondo. Ma anche all´assenza bisogna essere grati.
Per questo non bisogna vociare all´interno della religione o fuori dalla religione. Non bisogna far chiasso in nome di Dio o contro Dio. Il rumore del mondo non deve invadere, col grido dell´affermazione o del diniego, l´origine silenziosa da cui sono scaturite tutte le parole. […]

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …