Umberto Galimberti: Gli ordigni controsenso

15 Marzo 2005
Quel che colpisce nel comportamento di Unabomber sono gli oggetti di cui si serve per seminare morte e mutilazioni. Sono oggetti della vita quotidiana: un giocattolo di poco conto, una confezione da supermercato, una candela come ce ne sono tante in una chiesa. Cose che abbiamo tra le mani tutti i giorni, che trattiamo abitualmente senza particolari precauzioni, cose di nessuna importanza che, opportunamente confezionate, spezzano una vita, la interrompono bruscamente o con la sua fine, o con l’invalidità permanente. Quasi un’antiretorica della morte e un tributo al mito nichilista dell’insignificanza della vita. Conosciamo infatti la morte eroica, la morte drammatica, la morte dolente dell’infermità che non guarisce. Rifiutiamo invece la morte casuale dove non è reperibile alcuna traccia di senso, alcuna motivazione, dove il perché resta inevaso e l’insignificanza dilaga più crudele del dolore perché, a differenza del dolore, non trova neppure un frammento di spiegazione. Non c’è odio nella morte casuale, non c’è risentimento, non c’è passione per negativa che possa essere. Non c’è obiettivo. Non una persona determinata con cui si ha una qualche relazione, sia essa d’amore o di rancore. Non c’è neppure un’arma (un coltello, una pistola, un fucile) che al solo prenderla tra le mani rivela un’intenzione. Nel comportamento di Unabomber manca tutta la trama del senso, collassano tutti i nessi di causalità, perché tra l’impulso distruttivo nascosto nella soggettività di Unabomber e il destinatario a cui capita di morire o di essere per sempre invalidato non c’è nessuna correlazione, nessuna intenzionalità, neppure quella che può trasparire dall’oggetto impiegato per offendere, perché questo oggetto è prelevato dall’uso quotidiano delle cose più abituali. Siamo al di là della pazzia, perché anche nel delirio del folle c’è un disegno, che ha le sue motivazioni profonde in quegli abissi biografici che, scoperchiati, mettono capo ad azioni riconducibili a vissuti drammatici, che non hanno avuto la possibilità di essere elaborati. E perciò esplodono in modalità tragiche, che però non sfuggono al senso, alla spiegazione causale, alla comprensione psichica. Unabomber si sottrae al senso. La sua mente e i suoi gesti celebrano l’assoluta equivalenza della vita e della morte, del positivo e del negativo, del bene e del male, della pericolosità e dell’innocuità di qualsiasi oggetto, che da familiare diventa inquietante, da disponibile angosciante. Se proprio vogliamo trovare uno scopo, perché non riusciamo proprio a sfuggire alla logica del senso e ai nessi di causalità a cui è abituata la nostra mente, allora dobbiamo dire che, se non proprio lo scopo, l’effetto che il comportamento dell’Unabomber produce è lo "spaesamento". Un-heimlich lo chiamavano Heidegger e Freud, il "non-familiare", l’inquietante, che non è l’omicidio, la strage, la guerra. Lo spaesamento è la sospensione di ogni senso e si verifica là dove ciò che era familiare (heimlich) diventa inquietante (un-heimlich), ogni cosa, anche la più innocua, improvvisamente diventa minacciosa. Nulla è più rassicurante, non il volto della persona conosciuta, non il contorno delle cose e la loro disponibilità, non la semplicità di un gesto o la quiete di una parola. Nulla più rassicura e acquieta. è la fine della continuità del vivere in una logica del senso e dei nessi di causalità. Uomini e cose sono consegnati alla loro originaria ambivalenza. Indifferentemente materiali d’uso del vivere quotidiano e insieme minacciosi oggetti di morte. Lo spaesamento è più tragico della follia che, per quanto tortuosa, sa seguire un suo percorso. Lo spaesamento è la cancellazione di ogni via, quindi di ogni direzione, di ogni rintracciabile senso. Afferra la mente degli uomini non nel deragliamento della ragione come nella follia, ma nel suo collasso. Non ha un incedere drammatico, ma semplicemente indifferente, perché indifferente alla distinzione tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra ciò che vale e ciò che non vale. Il paesaggio perde i suoi contorni e non c’è una via che indichi una direzione. Siamo all’indifferenza esistenziale, più tragica della follia, perché la follia è almeno sostenuta dalla logica della passione, che lo spaesamento, neppure tragicamente, ma indifferentemente ignora. Bisognerà studiarlo questo stato della mente. Non ci è del tutto sconosciuto. Per brevi attimi l’abbiamo provato noi tutti nel corso della nostra esistenza, quando il senso latitava e tutto cadeva nella più assoluta insignificanza, in quella luce nera e così poco naturale che è sconosciuta persino agli abissi della follia.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …